La vendetta di SanRemo

Credo che la colpa (o forse il merito) di ciò che mi è accaduto vada imputata a quel santo che per anni ho venerato assistendo ai suoi sacri riti musical-vallettistici per poi riferirne ai miei lettori mentre quest’anno, come forse qualcuno avrà notato, no: quest’anno, invece di piazzarmi con tablet, cioccolato, brandy e altri generi di conforto sul divano di casa, di fronte al televisore a seguire il festival, me ne sono andato a sciare con i miei figli.

Ma San Remo, per punizione, da lassù mi ha lanciato un anatema che al confronto quelli di Morgan al suo poco amato partner sono amabili facezie. E così, mentre mi godevo le bianche piste innevate sopra Chamonix ho fatto un ruzzolone degno dei più arditi stunt-man, roba che manco James Bond. E sono caduto sulla spalla destra, così che invece delle dieci stelle che Amadeus ha portato sul palco dell’Ariston, pur se un passo indietro, io di stelle ne ho viste un milione, e tutte in primo piano.

Quest’anno il festival ha fatto il botto, con indici di ascolto stratosferici quasi quanto il volo che ho fatto io sopra la bianca pista del Monte Bianco. Eppure c’erano i soliti cimeli storici (tipo i Ricchi e Poveri in versione reunion, Rita Pavone, Ornella Vanoni), le solite cagnare fra cantanti ammalati di protagonismo, i soliti giovani rampanti, i soliti rapper stratatuati eccetera: c’era perfino il solito Beppe Vessicchio a far finta di dirigere l’orchestra. Insomma tutto come al solito, incluse le polemiche sui cachet degli ospiti e gli orari che, alla fine, uno non sa se gli convenga andare a letto o prepararsi la prima colazione. Forse le polemiche su Amadeus, sul rapper ginofobo e sui passi indietro delle donne, al festival hanno giovato più che nuocergli. Noi italiani (vedi poi noi meridionali) siamo fatti così: ci affezioniamo a chi ci picchia più forte. Ogni riferimento a Matteo Salvini è quasi del tutto causale.

Vabbè, tanto il festival io non l’ho visto. Ho visto le stelle, dicevo, cadendo sugli sci; e ancora adesso, a cinque giorni di distanza, sono tutto rigido e incriccato e sembro un manico di scopa che ha inghiottito una sbarra di ferro. Eppure, alla faccia del santo che mi ha punito in modo così crudele, io anche da questa triste esperienza ho tratto un insegnamento positivo.

Visto che la spalla mi faceva un male boia, accompagnato dai miei figli, che scuotevano la testa e si capiva che pensavano “povero papà, bisogna che si rassegni, alla sua età, a lasciar perdere lo sci e a praticare solo divano estremo guardando Sanremo” (ma io non desisto, e l’anno prossimo a sciare ci ritorno), sono andato all’ospedale di Chamonix. Sul momento mi sono preoccupato perché era tutto tappezzato di avvisi: il personale, per protestare contro la scarsezza degli organici, era in sciopero.

Ma mi sono rasserenato subito: lo sciopero c’era, ma il personale lavorava lo stesso. Una gentilissima receptionist mi ha accolto, ha voluto i miei dati, mi ha chiesto cos’era successo, ha registrato la mia tessera sanitaria e mi ha invitato ad attendere un istante. “Seh”, mi sono detto io: “Un istante! Chissà quanto mi faranno aspettare!” E invece, manco due minuti e una cortesissima infermiera mi ha chiamato, mi ha fatto accomodare, mi ha interrogato sull’incidente, mi ha dato uno di quei camicioni che ti danno negli ospedali. Fortunatamente ho dovuto spogliarmi solo dalla cintola in su. Poi è venuta una giovane e graziosa dottoressa, di una straordinaria amabilità, che mi ha visitato, mi ha ascoltato, mi ha auscultato e mi ha fatto anche fare un ECG e, dopo l’ECG, una radiografia. Infine, sorridente, cordiale e radiosa, mi ha rassicurato: niente di rotto, solo uno strappo muscolare. Qualche giorno di antidolorifici e passa la paura.

Rivestitomi sono tornato, sempre rigido come una scopa ma giulivo, dai figli che aspettavano, ansiosi e speranzosi (che mi passasse la voglia di sciare) e poi sono tornato alla reception per pagare la visita e il resto, aspettandomi chissà che tombola di conto. E invece la stessa gentilissima receptionist di prima mi ha chiesto solo 17,00 (diconsi diciassette) euro: in quanto cittadino della Comunità Europea avevo diritto all’assistenza pubblica e quindi ho pagato solo l’equivalente del nostro ticket. Sarebbe stato lo stesso a Garmish, nella Foresta Nera, sui Pirenei od ovunque altro nella nostra bella Europa. In Inghilterra no; in Inghilterra non più.

Più tardi, a pranzo con i ragazzi e poi anche a cena, in locali in cui dai tavoli vicini ci arrivavano risate e voci in francese, tedesco, spagnolo, inglese e vari altri idiomi incluso uno che forse era il finlandese, e mentre camerieri disponibilissimi (una napoletana, un’altra tedesca e, sì, ce n’era anche qualcuno francese) ci assistevano e ci coccolavano, non ho potuto fare a meno di dirmi quanto sia meraviglioso che noi si possa vivere così: diversi ma uguali, capaci di stare gli uni accanto agli altri incontrandoci e sorridendoci invece di spararci addosso come eravamo soliti fare fino a neanche tanti anni fa.

E imparando in una varietà di lingue, sulle piste, i moccoli di quelli che vanno a sciare anche se non hanno più l’età. Chi mi è passato vicino, dopo quella caduta, da me di moccoli in italiano ha potuto impararne un intero repertorio.

Giuseppe Riccardo Festa

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