Adriano Celentano, lo sanno tutti, è animato da una profonda carica di carità cristiana. Questa carica l’ha riversata nella lettera aperta che ha rivolto al Presidente della Repubblica per chiedergli di concedere la grazia a Fabrizio Corona che è detenuto in carcere, fra l’altro, per certe fotografie scattate a un calciatore, che aveva sorpreso in compagnia di una donna diversa dalla moglie: «Io queste foto le dovrei vendere a un giornale» gli avrebbe detto «ma se me le comperi tu, per me fa lo stesso».
Per i giudici si trattava di estorsione bella e buona, Celentano derubrica la cosa a semplice transazione commerciale. Il Molleggiato, in estrema sintesi, avanza due osservazioni: la prima, che Corona in fondo è sì uno sbruffone arrogante e volgare, ma in fondo è vittima più che artefice del suo destino; la seconda, che mentre lui langue in carcere ci sono altri, colpevoli di ben altri reati, che invece sono liberi e felici. La conclusione, molto cristiana, è che tutti sbagliamo, ma tutti meritiamo il perdono.
Non sta di certo a me dare consigli al presidente della Repubblica: non possiedo né la necessaria cultura giuridica né, soprattutto, i meriti artistici, il carisma e l’umanità di Adriano Celentano. E non sono un forcaiolo giustizialista.
Però non posso dimenticare le parole, pesanti come macigni, della sentenza definitiva con la quale la Cassazione ha confermato le condanne del povero ragazzo, del quale stigmatizzava «frequentazioni criminali e atteggiamenti fastidiosamente inclini alla violazione di ogni regola di civile convivenza», da aggiungere a «numerosi e cospicui precedenti penali» e uno stile di vita caratterizzato da «la ricerca ad ogni costo di facili (ed illeciti) guadagni e da condotte prive di scrupoli volte ad accaparrare risorse da investire in un tenore di vita lussuoso e ricercato».
Celentano cita uno solo dei reati per i quali Corona è stato condannato; ma in realtà i reati sono tanti, e fra questi ci sono la bancarotta e lo spaccio di banconote false. «Ma solo 5.200 euro» minimizzò lui. Al di là dei reati, ad ogni modo, ciò che trovo insopportabile in Corona è la sicumera, la spocchia di chi si ritiene in diritto di prendere tutto ciò che vuole, di soddisfare ogni suo capriccio e di essere al di sopra di ogni legge; e si ritiene oltraggiato, e strepita, e inveisce, quando si scontra con chi le leggi deve farle rispettare.
Non lo trovo insopportabile solo in Corona, beninteso: l’Italia è gremita di cialtroni volgari, ignoranti, arroganti, sboccati e prepotenti, che magari diventano divi, passano per artisti, fanno politica. Il povero Fabrizio, in fondo, non è che un prodotto, uno dei tanti e nemmeno il più vistoso, di una scuola di pensiero (si fa per dire) che da anni e anni, in Italia, avvilisce l’impegno, la cultura, il sacrificio e la serietà a tutto vantaggio dell’arricchimento facile, del tutto subito, del successo ad ogni costo, dell’apparire e del sembrare.
Credo che, alla fine, il povero Corona otterrà la sua grazia. E sono pronto a scommettere che dal giorno dopo si rimetterà a sbruffoneggiare ed esibire i suoi tatuaggi sulle copertine dei rotocalchi; rilascerà interviste, atteggiandosi a martire di una giustizia ingiusta, e magari diventerà la star di qualche talk-show televisivo, sul tipo del mai abbastanza vituperato Uomini e donne della De Filippi.
In fondo, l’Italia è il Paese delle sanatorie fiscali, degli indulti e dei condoni edilizi. Anche al povero Fabrizio, alla fine, sarà applicato il principio più amato dagli italiani, il più lacrimosamente e piagnucolosamente invocato e sempre generosamente applicato: Chi ha avuto, ha avuto ha avuto, Chi ha dato, ha dato ha dato: scordammce ’o passato.
E la tanto reclamata – in altri casi – certezza della pena? Che c’entra. Non pretenderemo mica, dagli italiani, anche un soprassalto di coerenza!
Giuseppe Riccardo Festa
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