IL POPOLO E IL CITTADINO

Che siano operanti, non più operanti o aspiranti ad operare; e che siano di destra, di sinistra o religiose, le dittature hanno mille diversi modi di manifestare la propria natura oppressiva e liberticida. Hanno tutte, però, alcuni tratti in comune: per esempio condividono l’amore per un’architettura ampollosa e retorica e la tendenza a divinizzare un leader (che può essere, o essere stato, effettivamente pericoloso, come Hitler, Stalin, Pol Pot, Robespierre, Khomeini, Kim Il Sung e Mussolini, o solo potenzialmente, come Berlusconi, Bossi o Grillo). Un’altra cosa caratterizza i dittatori, e permette di riconoscere come pericolose le ideologie che li generano: esse hanno, tutte, la pretesa di parlare a nome del “popolo”. Anche Alba Dorata, in Grecia, e Forza Nuova, qui da noi, quando avanzano le loro pretese, ed affermano i loro più o meno confusi principî, tirano sempre in ballo questo fantomatico “popolo”: “il popolo vuole”, “il popolo chiede”. Certo, anche la nostra Costituzione menziona il popolo: proprio all’inizio, all’articolo 1, lo sappiamo tutti, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ma si ferma lì: già all’articolo successivo parla di “diritti inviolabili dell’uomo”, ed al 3 (quello che amo di più) sancisce l’importanza dei “cittadini”, che, hanno tutti “pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. In altri termini, nella lungimirante visione dei nostri Padri costituenti, il vero protagonista della società è l’individuo, il cittadino, non un indistinto e non meglio definibile “popolo”, che possiede, certo, la sovranità ma deve esercitarla entro ben delimitati paletti. Con l’esperienza del Ventennio ben viva e bruciante nella memoria, i Costituenti sapevano bene che chi invoca l’onnipotenza del popolo in realtà invoca la propria, di onnipotenza. La Rivoluzione Francese, nel suo momento più alto, produsse la Déclaration des droits de l’homme, mica la Déclaration des droits du peuple. Viceversa, le dittature detestano gli individui ed amano le masse. Gli individui hanno il vizio di emergere e di distinguersi, pretendono di esprimere idee proprie. Ai dittatori questo non piace, perché essi non amano il rapporto con la realtà, che nelle sue infinite sfaccettature e sfumature è rappresentata proprio dai singoli. I dittatori si costruiscono un proprio modello di uomo, ne plasmano qualità e desideri a immagine e somiglianza di quel – per loro – perfetto, utopico modello (l’uomo ideale del dittatore non ha difetti), lo moltiplicano per n e ne fanno un popolo. Un popolo acclamante, obbediente, inquadrato e allineato. Ma in realtà inesistente. Chi non si adegua al modello merita l’allontanamento (Mussolini, contro i dissidenti, utilizzò molto, oltre al carcere, il confino: ricordate Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi?), la morte (il gulag e le purghe di Stalin, i lager di Hitler, le deportazioni di massa di Pol Pot, le stragi di curdi di Saddam Hussein, l’Inquisizione cattolica e i suoi autodafé). Quando non dispone – o non dispone ancora – di strumenti così definitivi, in attesa di tempi più propizi il dittatore o aspirante tale s’accontenta dell’insulto, della denigrazione (metodo Boffo) e dell’irrisione (Grillo, Bossi e Berlusconi). Bisogna diffidare di chi pretende di parlare a nome del “popolo”. Chi lo fa si attribuisce un mandato che nessuno gli ha conferito. Parlare a nome del “popolo” implica il disconoscimento della molteplicità delle idee; fa di un caleidoscopio, qual è la meravigliosa varietà degli individui, un monoblocco acefalo; e nega ogni diritto d’esistenza alle minoranze, che poi sono il vero seme della crescita di qualsiasi società. In definitiva, chi si propone come portavoce della volontà del popolo in realtà non fa che esporre una volontà che è tutta e solo sua. E merita perciò una sola risposta: “Popolo sarà lei!”.

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