
Più di una volta, nell’imminenza di una tornata elettorale, mi è capitato di sentire qualcuno dire, con aria furba, frasi del tipo Ah, no, a me non mi fregano: io a votare non ci vado.
Votare o non votare è chiaramente una libera scelta: nessuno può essere costretto a recarsi alle urne, ed è giustamente decaduta la norma che un tempo, almeno per le politiche, marchiava la fedina penale del cittadino che a votare non ci andava con l’annotazione, appunto, non ha votato.
Però una cosa è indiscutibile: chi non vota rinuncia a far pesare la propria esistenza, in quanto cittadino, nei destini della comunità. È vero che la forte assenza di elettori dalle urne è un segnale importante per chi poi assumerà le responsabilità di governo, si tratti di un comune, di una regione (per le province non votiamo più) o del Parlamento. Ma è pur vero che anche se a votare ci si va in pochissimi, i pochi che ci vanno eleggono comunque degli amministratori o dei legislatori, e quegli amministratori e legislatori prenderanno delle decisioni che influiranno anche sulla vita di chi a votare non cè andato.
Ben poco senso avrà, allora, dire Sì, questo governo (o giunta) fa cose ingiuste e sbagliate, ma io non c’entro niente con le sue scelte, perché io non ho votato. Che piaccia o no, non votando in realtà si contribuisce a dare il potere a chi il potere poi assume, e spesso la non-scelta ha conseguenze tragiche: un esempio è l’ex presidente iraniano Achmedinejad, che ottenne il suo primo mandato proprio grazie all’assenza dalle urne di gran parte dell’elettorato progressista del suo Paese e si prese poi il secondo con metodi discutibili.
Liberissimo, dunque, ognuno, di fare come vuole; ma chi non ha votato non si lamenti, poi, se non condivide le politiche degli eletti: rischia di fare la figura del famoso marito che decise di tagliarsi gli zebedei per vendicarsi della moglie poco disponibile.
Giuseppe Riccardo Festa
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