CATALDO FORMARO MI HA CHIESTO COSA PENSO DI QUESTA FOTO

Bella statua, vero? Esprime in modo intenso e toccante il dramma e lo straniamento dei nostri emigranti che armati solo di speranza e di una valigia di cartone, sradicati dal proprio mondo ed estranei anche nel nuovo, affrontavano l’ignoto in cerca di un destino migliore.

Ci viene facile commuoverci pensando ai “nostri” emigranti; e infatti, di monumenti all’emigrante ce ne sono un po’ dappertutto, in Italia: basta fare una piccola ricerca su Internet per rendersene conto.

Sarebbe bello se la stessa emozione ci prendesse anche quando gli emigranti non sono “nostri”.

Come sempre succede i fatti, fattacci e fatterelli più recenti rubano la scena a quelli che nei giorni precedenti riempivano le pagine e gli schermi. Così il dramma – o farsa, o tragicommedia: fate voi – delle dimissioni presentate e poi ritirate di Ignazio Marino da sindaco di Roma, la querelle sulla bistecca e il salame cancerogeno e la nuova serie di arresti e scandali per corruzione nel pubblico impiego hanno fatto sparire dai giornali di tutti i tipi i reportage sui profughi e i migranti che tuttavia continuano a premere sulle frontiere europee.

Eppure la loro situazione, già tragica durante l’estate, è peggiorata ancora con l’arrivo del freddo; e naufragi, con diecine di morti – fra i quali tanti bambini – continuano a verificarsi nei bracci di mare che separano la Turchia dalla Grecia e la Libia da Lampedusa. Non dovremmo scordarcene. Meno di tutti noi italiani che proprio come quei disgraziati, un tempo neanche tanto lontano, fuggivamo anche noi in cerca di una vita migliore.

In realtà la condizione dei nostri emigranti era migliore: non scappavano, loro dalla guerra. Oggi sarebbero giudicati “migranti economici”, non “profughi”: e i Paesi sui quali si sono riversati (USA, Argentina, Francia, Germania, Svizzera, Belgio, Gran Bretagna), codici ONU alla mano, li potrebbero tranquillamente rimandare indietro, come ora tutti facciamo con i poveracci che scappano dal loro Paese “solo” perché hanno fame, e non hanno avuto la casa bombardata o qualche parente ammazzato dal Jihadista di turno.

Sarà che entrambi i miei figli per trovarsi un lavoro all’altezza delle loro ambizioni e qualifiche hanno dovuto andarsene dall’Italia, e che due miei zii (un fratello di mio padre e uno di mia madre) sono stati anch’essi emigranti, ma io questa differenza non la vedo.

D’accordo: i problemi che questi esodi provocano sono enormi. Ma ben più gravi sono i problemi dai quali tutta quella gente sta scappando.

D’accordo: fra le migliaia di fuggiaschi si nasconde sicuramente qualche cattivo soggetto. Ma ce n’erano anche fra i nostri: vi ricordate di Al Capone, Lucky Luciano, i Gambino e i tanti altri padrini italo-americani?

D’accordo: abbiamo già i nostri, di poveri (paradossalmente, la maggior parte di quelli che fanno questa obiezione si professano cattolici). Ma i poveri sono poveri, a prescindere dal loro passaporto.

D’accordo: faticano a integrarsi. Ma i nostri emigranti ci misero due o tre generazioni, prima di smetterla di rinchiudersi in recinti stile “Little Italy”.

I nostri emigranti, nei Paesi in cui sbarcavano, erano guardati con disprezzo, insofferenza e sufficienza; e la cosa li umiliava, e li offendeva.

Ricordiamocelo, quando ci viene voglia di associarci ai vari Salvini e ai loro slogan di facile presa e poco costrutto. Non esistono soluzioni semplici per problemi complessi come questo. E, soprattutto, evitiamo la meschinità di considerarli come astratti problemi economici e la vigliaccheria di temerli come se portassero chissà quali malattie, violenze e crimini: ricordiamoci che sono, prima di tutto, esseri umani in fuga da situazioni altrettanto, quando non ben più terribili, di quelle dei nostri amici e parenti che, anche loro, scappavano in cerca di un futuro.

Il futuro, ricordiamocelo, è un diritto di tutti.

Giuseppe Riccardo Festa

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