Uto Ughi, i Maneskin e il festival di Sanremo

L’intemerata di Uto Ughi che senza tanti complimenti ha stroncato i Maneskin, giunge alla vigilia del festival di Sanremo al quale pure, in passato, il grande violinista non ha risparmiato strali avvelenati, definendo “vomitevole” la qualità della musica che là viene proposta; e del festival di Sanremo, nella sua più recente e vincente versione giovanilistica, il gruppo romano è il prodotto di maggior successo di questi ultimi anni.

A un approccio superficiale, l’invettiva di Uto Ughi potrebbe sembrare l’ovvio scoppio di livore del tipico – e anziano – rappresentante del mondo del classico contro un altro mondo musicale, quello rock e pop, al quale egli è del tutto estraneo, del quale non comprende il linguaggio e che vede ottenere un successo planetario e applaudire da folle oceaniche nonostante quella che, ai suoi occhi e alle sue orecchie, è di fatto poco più che una produzione di fracasso e un’esibizione di cattivo gusto.

Ma Uto Ughi ha anche messo bene in evidenza quanto grave sia in Italia l’analfabetismo musicale, conseguenza di una imperdonabile carenza di educazione nelle scuole.

A questo riguardo sono sicuramente d’accordo con lui, e non è la prima volta che rilevo la gravità del problema dalle pagine virtuali di CariatiNet: più volte mi sono chiesto se certi fenomeni, primo fra tutti il rap e i suoi innumerevoli derivati, avrebbero lo stesso successo se ci fosse, nelle giovani generazioni, una migliore conoscenza della storia e della grammatica della musica; se le loro orecchie fossero educate all’ascolto e con esso al godimento dell’immenso patrimonio di cui, pur essendo nati nella patria del concerto, della sonata e del melodramma, non sanno nulla.

Inutilmente, infatti, pedagoghi, psicologi e studiosi si affannano a spiegare che l’educazione musicale, al di là della gioia e del piacere che offre, è un potentissimo strumento di crescita mentale e un amplificatore delle capacità logiche: chi decide dei programmi scolastici continua a ritenere che la formazione musicale sia una cosa superflua, quando va bene, ma di regola la declassa a pura e semplice perdita di tempo.

E così, mentre di là delle Alpi i teatri sono affollati da un pubblico anche giovanile che segue con interesse e competenza l’esecuzione di concerti e l’allestimento di melodrammi, qui da noi per la maggior parte dei ragazzi nomi non dico come quelli di Pietro Antonio Locatelli, Alessandro Marcello o Tomaso Albinoni, ma perfino di Giuseppe Verdi, Antonio Vivaldi, Gioachino Rossini e Giacomo Puccini non significano nulla; e nulla di ciò che essi hanno creato riesce a destare non dico il loro interesse e la loro passione, ma nemmeno un briciolo della loro curiosità.

Uto Ughi non ha condannato in blocco il mondo del rock: facendolo avrebbe dimostrato di essere, lui, ignorante di quel mondo musicale quanto il giovani lo sono del suo: “Ogni genere” ha detto, “ha diritto di esistere, ma quando si fa musica, non quando si urla e basta”.

E attenzione: la sua stroncatura dei Maneskin si affianca a quella dell’autorevole rivista statunitense The Atlantic, specializzata nel settore, secondo la quale il fascino della band non dipende dalla musica che produce: è chiara l’allusione alle continue provocazioni, al ricorso ad effetti, costumi e trovate che, a conti fatti, con la musica hanno poco o niente da spartire ma che mandano in visibilio le osannanti folle dei fan: un modo di fare spettacolo che peraltro i Maneskin non hanno certo inventato, visto che è praticamente connaturato a un certo genere di esibizioni.

Maneskin a parte, quello che è sicuro è che privare i nostri ragazzi della conoscenza delle loro radici musicali costituisce un imperdonabile furto ai loro danni, perché privarli in questo campo degli strumenti di conoscenza significa, in definitiva, privarli della possibilità di scegliere e quindi sottrarre loro un certo margine di libertà. Discorso che potrebbe allargarsi, purtroppo, anche ad altri campi, come la geografia e, soprattutto, la storia. Ma il discorso, a questo punto, si farebbe più complicato; e anche molto più antipatico.

Quello che è sicuro è che quest’anno, come già avevo promesso, mi risparmierò l’ascolto del festival di Sanremo; e qualcosa mi dice che anche Uto Ughi farà lo stesso.

Giuseppe Riccardo Festa

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