
Ci vuole un’encomiabile faccia tosta per affermare, come stanno facendo tanti esponenti dell’attuale maggioranza di governo, che la riduzione delle accise sui carburanti favorisce i ricchi perché – sono parole di Letizia Giorgianni, parlamentare meloniana – “è un sussidio generalizzato. Non prevede distinzioni di reddito e, quindi, finisce per andare a beneficio dei più ricchi, che sono quelli che consumano maggiori quantità di carburante. Glielo dico schiettamente: non potevamo rischiare di mandare in rosso i conti pubblici per pagare il pieno a Fedez e alla Ferragni”. Per fare affermazioni del genere bisogna avere un’encomiabile faccia tosta associata a una straordinaria malafede o a un’abissale ignoranza delle più elementari nozioni di storia, di economia e di scienza delle finanze; o magari a tutte quante queste qualità.
Chi ha qualche nozione di storia appena appena più elevata di quelle di Maurizio Gasparri, che ha ammesso di non voler dare lezioni al riguardo ed ha fatto bene, visto che si è dimostrato in possesso di un’encomiabile ignoranza, citando a sproposito e collocandola male la guerra di Crimea; chi, dicevo, ha qualche nozione di storia, ricorda con quanto sollievo fu accolta dalle classi più disagiate l’abolizione, nel 1884, della famigerata “tassa sul macinato”: era, a tutti gli effetti, un’imposta sui consumi, calcolata sul numero di giri che un mulino compiva nel macinare il grano: un’accise, insomma, che invece che sulla benzina si calcolava sulla farina e quindi sul pane.
La tassa sul macinato era la stessa per tutti, proprio come le accise sulla benzina, e provocò rivolte e sommosse. Non tra i ricchi, ovviamente: non tra i Fedez e le Ferragni dell’epoca: qualche centesimo di più sul prezzo del pane, a loro, non gli faceva un baffo. Ma per braccianti, operai, disoccupati, contadini e poveracci vari, quei centesimi rappresentavano un onere insopportabile.
È così per ogni forma di imposizione indiretta, dall’IVA ai bolli e, appunto, alle accise: colpisce indiscriminatamente ricchi e poveri. Solo che i ricchi che viaggiano in Ferrari se ne infischiano se la benzina e il gasolio costano qualche diecina di centesimi in più, ma non è lo stesso per il rappresentante di commercio, per il pendolare, per il camionista: gente che col costo dei carburanti deve farci i conti per arrivare in qualche modo alla fine del mese.
I Padri costituenti erano ben consapevoli dell’importanza del problema rappresentato dall’incidenza del fisco sulle tasche dei cittadini. Per questo, avendo a mente il vero criterio di equità, non quello farlocco della deputata Giorgianni, all’art. 53 della Costituzione dissero chiaro e tondo: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”: cioè, chi più ha più deve dare. L’esatto contrario di quello che accade con le imposte indirette, come appunto le accise.
Non sorprende che a invertire così sfacciatamente i termini del problema sia una parte politica che, in sfregio alla Costituzione, detesta il criterio di progressività delle imposte e blatera di “flat tax”, ossia di imposte, anche le dirette, uguali per tutti: così che il miliardario e il pezzente paghino la stessa percentuale del rispettivo reddito.
Spacciare per operazione democratica un aumento (o una mancata riduzione) delle accise è dunque sfacciatamente demagogico, a maggior ragione dopo che per anni, dai banchi dell’opposizione, si è predicato contro quelle stesse accise.
Il governo Meloni, comunque, va avanti: la luna di miele col suo elettorato, grazie alla provvidenziale scarsezza di memoria tipica degli italiani ed anche all’insipienza delle opposizioni, non è ancora finita; ma la signora Meloni farà bene a stare attenta perché, memoria e opposizioni a parte, ora sta mettendo le mani nelle tasche della gente.
E la gente perdona tutto: incoerenze, demagogie, marce indietro, bugie, mistificazioni; ma guai a toccarle il portafoglio.
Giuseppe Riccardo Festa
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