
Ricordate Attenti al Gorilla, la divertente e irriverente canzone che Fabrizio De Andrè aveva ripreso da George Brassens? Racconta di comari che, affascinate, contemplavano l’animale non dico dove non dico come (insomma nei monumentali paesi bassi); ma quando la bestia - decisa a liberarsi della verginità – esce inopinatamente dalla gabbia, scappano via, anche loro, dimostrando la differenza fra idee e azione.
Il gran putiferio che si è scatenato intorno al Vaticano mi ha fatto venire in mente questi versi, e anche un commento che mia madre era usa fare quando qualcuno si dimostrava in qualche modo incoerente: «Quello dice: fate quello che dico, non fate quello che faccio. Come i preti».
Già, la coerenza. Cè, nell’umanità, una fascia di individui privilegiati dai quali non è lecito aspettarsi coerenza, e quei privilegiati sono gli artisti. Caravaggio ha creato opere dense di sublime spiritualità ma nella vita era violento fino all’assassinio; le composizioni di Beethoven sono di una bellezza che strappa le lacrime ma l’uomo era gretto, sudicio e meschino; anche Leopardi, che tocca nei suoi versi l’assoluto della perfezione poetica, formale e filosofica, era intollerabilmente sporco; e l’elenco potrebbe continuare con Manzoni, Tolstoj, Mozart, Wagner, Pascoli, giù giù fino a Gino Paoli e alle sue esportazioni di capitali all’estero.
L’artista lo si giudica esclusivamente dall’opera; e se la sua vita la si studia è solo per inserire l’opera in un contesto ed eventualmente stupirsi, ma non scandalizzarsi, per le incoerenze fra l’una e l’altra.
Ben altro discorso si fa - o almeno si dovrebbe fare – per i politici e per coloro che si ergono a guide spirituali delle comunità. Dico si dovrebbe fare perché ricordo le levate di scudi dei berlusconiani quando si facevano loro notare le incongruenze del loro leader, che s’ergeva a difensore della famiglia ma si abbandonava a sollazzi non propriamente sobri con ragazze che avrebbero potuto essergli, più che figlie, nipoti: siamo tutti peccatori, dicevano.
Il problema non riguarda certo il solo Berlusconi, che al di là della godereccia vita privata ha anche subito una condanna per truffa allo Stato e tuttavia continua, sia pure in tono minore, a fare il capopartito. Sono tanti, in ascesa o in declino, i capipartito o capipopolo che gridano contro le ingiustizie e le disonestà altrui pur se collezionano condanne per i reati più svariati, dall’abuso edilizio all’omicidio colposo alla calunnia, o ricorrono tranquillamente a condoni fiscali tombali per fior di milioni di euro, o ancora portano allo sfacelo città come Roma e tuttavia sono sempre là, a pontificare sui giornali e nei talk-show.
Per tutti questi signori la parola coerenza sembra non significare nulla. D’altra parte il problema dell’incoerenza non riguarda solo i leader: tra i famosi impiegati comunali di San Remo che timbravano il cartellino e poi se ne andavano per i fatti loro più d’uno, su Facebook, tuonava contro la classe politica disonesta e corrotta, ergendosi a paladino della giustizia, dell’onestà e della verità.
Devessere una specie di malattia, che investe tutta l’umanità (vedi caso Blatter) ma è particolarmente virulenta in Italia e consiste nel pretendere, sì, la massima correttezza e la più cristallina onestà; ma esclusivamente dagli altri. Per i propri comportamenti, invece, massima disinvoltura.
E il clero? In fondo la riflessione era partita da là. Beh, purtroppo a parte i don Ciotti, i padre Zanotelli, i don Gallo e gli altri - tanti, certo, ma ahimè, tutto sommato neanche tantissimi - che prendono sul serio la loro missione, la storia insegna che nelle cronache di oggi non cè niente di nuovo: Dante riempie il suo inferno di frati, prelati e anche papi; la parola nepotismo è nata proprio nei palazzi vaticani e l’ingordigia di Roma fu tra le cause dell’ira di Lutero; e come dimenticare Francesco Guicciardini, contemporaneo di Machiavelli? Del clero - papi inclusi - del suo tempo dice tutto il male possibile, registrando l’ambizione, l’avarizia e la mollezze dei preti. E lui la sapeva lunga, perché per quei papi aveva pure lavorato.
Ma era italiano, il buon Francesco, e ammette candidamente che per quanto li disprezzasse, ha continuato a frequentarli per el particolare mio: insomma, nel nome degli affari suoi. È più che altro per questa ammissione che è passato alla storia.
Perché era onesto, insomma, ma alla faccia della coerenza lo era solo a metà: da buon italiano, appunto.
Giuseppe Riccardo Festa
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