
di Marco Toccafondi Barni
– E’ morto il calciatore che riuscì a trasformare le punizioni in penalty.
Sì, perché Sinisa Mihajlovic era e resterà soprattutto questo: le sue punizioni. Erano talmente micidiali e perfette da essere una sentenza per gli avversari. Tanto che una volta, quando militava nella Lazio, né segno addirittura 3. Fu una tripletta tutta su punizione e forse rimasta unica in serie A, tra l’altro ai danni della Sampdoria col classico gol dell’ex.
Già, perché Mihajlovic in Italia aveva iniziato la sua carriera in giallorosso, per poi legarsi definitivamente alla Lazio. Giunse alla Roma fresco vincitore della allora Coppa dei Campioni con la Stella Rossa. Fu portato a Trigoria da una sorta di secondo padre, Vujadin Boškov, probabilmente l’unico che riusciva a farlo commuovere nel ricordo e quindi anche a scalfire la sua fama di uomo duro, quell’ “hombre vertical” utile alla sua fama. Era un’ estate torrida nel Belpaese, in tutti i sensi: l’ Italia era sconvolta dall’ inchiesta del pool di Mani Pulite, che da Milano si era estesa in tutto lo stivale, inoltre proprio nei giorni di un giovane Sinisa nella capitale il paese viene sconvolto dagli attentati contro Falcone e Borsellino. Alla Roma Mihajlovic resterà poco, soltanto due stagioni: dal 1992 al 1994. Passerà alla Sampdoria per poi approdare successivamente alla Lazio di Cragnotti e conquistare i trofei più importanti, come lo scudetto biancoceleste del Duemila. Infine la chiusura della carriera all’ Inter, tra il 2004 e il 2006, dove tra le altre cose si ricorda una fantastica conta con Adriano per decidere chi dovesse battere la punizione. Bim, bum, bam, vinse Sinisa e fu subito gol. Per lui rigore o punizione pari sono.
La “sfiga” geopolitica – Va detto e lo ha effettivamente dichiarato in più di un’ intervista: Sinisa è stato anche sfortunato dal punto di vista storico e geopolitico. Infatti nella sua stessa famiglia, figlio di una madre croata e di un padre serbo, c’è il germe di quella che sarà la più grande tragedia geopolitica del ‘900, il cosiddetto secolo breve: la guerra civile e la dissoluzione della ex Jugoslavia. Era nato addirittura a Vukovar (poi cresciuto nella vicina Borovo), città diventata presto simbolo di quella immane catastrofe di fine secolo. E in quella zona che muove i primi passi da calciatore, per poi militare nel Vojvodina. All’ inizo di quel decennio, che muta il mondo e la storia, per lui c’è il salto decisivo nella squadra più importante della Jugoslavia: la Stella Rossa. Non ce ne vogliano i tifosi del Partizan, ma quella era una formazione di veri fenomeni in erba: Savicevic, Prosinecki, Stojanovic, Jugovic. Nomi addirittura impensabili se presi tutti insieme, difatti vincono la Coppa dei Campioni battendo, proprio in Italia, l’Olympique Marsiglia nella finale di Bari. Una vittoria talmente prestigiosa che all’ epoca qualcuno ingenuamente, cascando per l’ennesima volta nella trappola che vorrebbe credere ad eventi sportivi in grado di mutare le logiche della geopolitica, sperò potesse evitare la tragedia. Purtroppo arrivare in Italia e cominciare una carriera simile, da diventare addirittura un punto di riferimento per un’ intera generazione negli anni ’90 del secolo scorso, non fu una fortuna per un calciatore con origini serbe e croate. Infatti Sinisa commise anche degli errori, invero madornali, perché se i tifosi più neri della Lazio alzarono un vergognoso striscione in onore di Arkan in curva Nord forse a sua insaputa, certamente fu una sua decisione dedicare un affettuoso necrologio a Zeliko Raznatovic, noto come il comandante Arkan, subito dopo la sua morte nella hall di un albergo.
Chi era Raznatovic è presto detto: un autentico criminale di guerra, tra i peggiori che siano mai esistiti. Era infatti il leader indiscusso del gruppo paramilitare delle Tigri e all’epoca anche a capo degli ultras della Stella Rossa. Costui nel corso del tristemente noto assedio di Sarajevo commise alcuni tra i peggiori crimini contro l’umanità che si possono immaginare. Lui e le sue squadracce entravano sovente nei villaggi torturando e stuprando donne, uccidendo i bambini e ovviamente facendo fuori per primi tutti gli uomini. Quindi avere parole di apprezzamento o addirittura dedicare necrologi a personaggi quali Arkan, ma pure per Mladic e Milosevic o appunto altri protagonisti serbi della carneficina ex Jugoslavia come ha fatto lui non è cosa che si deve dimenticare.
La redenzione: da duro a nonno affettuoso – Tuttavia, come del resto capita spesso con gli esseri umani, con l’età anche Sinisa si trasformò, maturò e quindi migliorò. Lascia il calcio giocato nel 2004, dopo due buone stagioni all’ Inter, per restarci in panchina come vice dell’ amico Roberto Mancini. Poi la prima esperienza da allenatore ed è giusto col Bologna. Era il 2008, l’innamoramento con la città dove la parabola si chiuderà, invero in maniera un po’ troppo brusca, il 6 settembre scorso. La carriera da allenatore vive fasi alterne: maluccio a Firenze e molto bene a Bologna. Ma è solo 3 anni fa, era il 2019, che un buon allenatore diventa un esempio. In una conferenza bella quanto drammatica Sinisa annuncia al mondo e ai tifosi rossoblù la sua malattia: leucemia. Spiega come la affronterà a muso duro, lo ha fatto per una vita con gli avversari in campo, però è anche tenero sia nel commuoversi, sia nell’ incoraggiare chi non riesce ad affrontarla come invece si propone di fare lui: “Non c’è nessuna vergogna nell’ avere paura e vivere attimi di sconforto nella malattia”. Sarà infatti una lotta dura ed è quasi incredibile come sia riuscito ad allenare una squadra di seria A, con tutto lo stress e l’impegno che questo comporta. Eppure ce l’ha fatta, fino a ieri. E allora ciao Sinisa, un uomo che forse da oggi non insegnerà agli angeli come calciare una punizione, ma ha insegnato a tutti noi come trasformare un calcio piazzato con la facilità di un rigore
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