TRIBUNALE DI BRESCIA E VIOLENZA RELIGIOSA: LA CORTE D’APPELLO SBUGIARDA IL P.M.

Fortunatamente il buonsenso, a volte, prevale.

Mentre un PM, a Brescia, ha chiesto l’assoluzione di un (fortunatamente ex) marito bengalese, che era violento con la moglie, perché la comprovata violenza dell’imputato, a detta del magistrato, andava ascritta al suo bagaglio culturale, nella stessa città la Corte d’Appello ha rigettato la stessa pretesa, avanzata stavolta dai difensori, ed ha confermato una severa condanna a carico del padre, la madre e il fratello (tutti cittadini italiani) di quattro ragazze di origine pakistana, che i congiunti sottoponevano a violenze e vessazioni in quanto “non volevano vivere da buone musulmane”.

La pretesa che la violenza possa essere legittimata da un contesto culturale è in sé aberrante, ma è addirittura inconcepibile che possa essere avanzata da un magistrato.

Sulla base di una simile pretesa, ogni comportamento abnorme, dal razzismo allo stupro, potrebbe essere giustificato accampando, appunto, il contesto culturale in cui si è nati o cresciuti. L’antisemita ad esempio, sulla scorta delle “radici cristiane dell’Europa”, potrebbe invocare l’odio contro gli ebrei che per secoli ha inquinato perfino le liturgie della Chiesa cattolica; il pedofilo potrebbe citare l’Anabasi di Senofonte, in cui si legge che agli ufficiali greci era consentito portarsi in tenda “solo” un fanciullo; il padre che massacra di botte il figlio potrebbe citare Tommaso d’Aquino, un padre della Chiesa, che affida al padre l’educazione dei figli proprio perché ha il braccio più forte della madre e quindi può punire con maggiore severità il pargolo; ed allo stesso Tommaso d’Aquino potrebbe riferirsi il marito cattolico che rivendica la sua superiorità, non solo fisica, sulla moglie (questo vizio, come si vede, non è solo musulmano). Tornando al mondo islamico, in nome della tradizione diverrebbe legittimo imporre alle donne il velo e la burqa, e si darebbe ragione alla polizia morale iraniana che le massacra se scoprono i capelli, mentre, cambiando religione, i parenti indù del marito morto potrebbero pretendere il “suttee” della vedova, ossia la sua morte sul rogo ove arde la carcassa del defunto e, infine, il mutilatore africano dei genitali delle bambine potrebbe rifarsi alle tradizioni del suo Paese d’origine, che impongono l’escissione del clitoride e la sutura delle labbra vaginali per assicurare la castità femminile; e così via, di scusa in scusa, di tradizione in tradizione, di violenza in violenza. Che tutto questo accada in Italia, stando a quel PM, non avrebbe rilevanza, se l’imputato è portatore di una di quelle tradizioni culturali.

La Corte d’Appello di Brescia riscatta la richiesta insensata di un PM dello stesso tribunale. Ma a quante altre scempiaggini come quella richiesta di assoluzione dovremo ancora assistere, nel nome di una pretesa legittimità culturale che non sta né in cielo né in terra? Quanti altri giudici, giornalisti e intellettuali (o presunti tali) continueranno a legittimare la violenza nel nome di tradizioni culturali che non esito a definire oscene e aberranti?

Di fronte al rispetto dell’integrità – fisica e psicologica – della persona umana, non c’è tradizione culturale o religiosa che tenga. Chi pratica la violenza va punito, senza se e senza ma, perché sempre e dovunque deve valere quel principio di civiltà che va posto alla base di ogni sano sistema giuridico: la tua libertà finisce là dove comincia la mia, le tue idee non hanno il diritto di condizionare le mie. Un principio che evidentemente quel PM ha dimenticato ma che farà bene a ripassarsi, se vuole continuare a fare il suo mestiere in questo Paese.

Altrimenti, fra Iran, Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, Egitto, Cecenia e altri ameni Paesi del genere, non ha che l’imbarazzo della scelta: si accomodi pure, là sarà certamente ben accolto.

Giuseppe Riccardo Festa

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