
Sto a casa. Come tanti milioni di italiani. In ferie forzate, in attesa che la situazione migliori. Mi siedo, mi alzo, ma il tempo non passa mai.
Quella che stiamo vivendo in questi giorni è una forte paura di comunità. Un timore che ci mette completamente a nudo con tutte le nostre fragilità e incertezze sul domani.
Malinconia e tristezza coinvolgono tutti. Nessuno è escluso. Quasi non ce lo ripetiamo più tra amici e parenti nelle nostre telefonate e messaggi quotidiani.
Siamo stanchi di confessarci le stesse identiche cose. Una malattia contagiosa che sembra inarrestabile e che ormai ha attaccato l’anima di ognuno.
In queste giornate, tutte uguali l’una a l’altra, che si susseguono in modo surreale: ho scoperto di avere tanti altri amici e amiche. Non ci avrei mai creduto.
Sono le persone che vivono a pochi metri di distanza nelle abitazioni dei palazzi di fronte a dove abito.
Mai le avevo viste prime. Eppure sono tante e vivono le mie stesse paure e angosce.
Le ho scoperte, seppure dai brevi confronti surreali dai balconi, ricche di umanità e cariche di una forte sensibilità.
Ho conosciuto le loro storie. Mi sono tornate familiari. Siamo diventati intimi e se guardo indietro mi fa quasi strano che mi sia accorto prima della loro presenza.
Penso. È una prova crudele ciò che stiamo vivendo. Ma se da questo incubo usciremo, dovremmo forse porre più attenzione alla nostra vita e a ciò che ci circonda.
Credo che potremo avere tutti più bisogno di fondamenta umane ancora più solide per ricostruire il nostro futuro, sulle macerie di un così tale grave dramma. Ammetterlo di sicuro potrebbe farci sentire già oggi meno soli.
Nicola Campoli
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