KISS MY ASS”: L’AMERICA DI TRUMP OLTRE IL LIMITE DELLA DIPLOMAZIA

MA LA CINA RISPONDE CON FERMEZZA E IL MONDO SI ALLONTANA DA WASHINGTON.

Donald Trump

Una frase volgare. Un’espressione brutale. Un attacco frontale. Con un solo colpo di voce – “Kiss my ass”, rivolto alla Cina – l’ex presidente Donald Trump ha riscritto, in senso drammaticamente regressivo, i codici del linguaggio diplomatico internazionale. Un’espressione da bar, da rissa verbale, che difficilmente si concilia con la figura di chi ricopre la carica più alta degli Stati Uniti d’America.

Ma dietro l’insulto c’è molto di più. C’è un’intera visione del mondo che si regge sulla provocazione, sull’aggressività, sull’umiliazione dell’altro come strumento di potere. C’è, ancora una volta, la politica del “prima l’America” che si trasforma, nei fatti, in “solo l’America”, anche a costo di calpestare alleati, regole e decoro istituzionale.

Non è la prima volta che Donald Trump utilizza un linguaggio violento, divisivo e inaccettabile nei confronti di altri capi di Stato, istituzioni internazionali o interi popoli. Ma rivolgere un’espressione così volgare alla Cina – seconda potenza economica globale – in un contesto già teso per l’escalation di dazi e ritorsioni commerciali, non è solo una gaffe: è un attacco calcolato.

Un attacco che dimostra come la linea Trump resti ancorata all’intimidazione, alla rottura, alla totale mancanza di rispetto per le regole basilari della diplomazia internazionale. È un approccio che disprezza il multilateralismo, deride la cooperazione e alimenta un clima da guerra fredda 2.0, dove le parole sono proiettili.

Parallelamente alle offese verbali, l’amministrazione Trump ha rilanciato la sua offensiva commerciale imponendo nuovi dazi contro Pechino, misure che – secondo esperti e istituzioni internazionali – violeranno ancora una volta le regole del libero scambio sancite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).

La risposta della Cina non si è fatta attendere: Pechino ha annunciato misure proporzionate e legittime, ribadendo la sua volontà di difendere non solo gli interessi nazionali, ma anche il sistema multilaterale basato sulle regole.

A fronte della politica muscolare americana, la Cina si propone come voce della moderazione e della stabilità, pur mantenendo ferma la propria posizione. Una strategia che si sta rivelando efficace nel guadagnare il consenso internazionale.

Ma non è solo Pechino a reagire. Alleati storici degli Stati Uniti come l’Unione Europea, il Canada e il Messico hanno già espresso forte condanna per le misure unilaterali statunitensi. Da Bruxelles a Ottawa, cresce il disagio e la distanza nei confronti di un’America che si comporta non come guida del mondo libero, ma come potenza capricciosa e imprevedibile.

Le contromisure europee non sono solo tecniche o economiche: sono politiche. Parlano la lingua della disapprovazione e del rifiuto verso un modello di leadership che non riconosce più il valore del rispetto reciproco e del confronto. E nel vuoto lasciato da Washington, la Cina si accredita sempre più come interlocutore credibile e costruttivo.

Contrariamente alla retorica trumpiana, la guerra dei dazi non protegge i lavoratori americani. Al contrario, li espone. Ogni contromisura cinese colpisce settori vitali dell’economia statunitense: dall’agricoltura all’hi-tech, dall’automotive ai beni di largo consumo.

L’illusione sovranista di rafforzare l’economia nazionale isolandosi dal mondo si sta rivelando un boomerang, che impoverisce le catene produttive e rallenta la competitività globale degli stessi Stati Uniti.

In un’epoca segnata da sfide globali comuni – cambiamento climatico, intelligenza artificiale, salute pubblica, sicurezza energetica – ci sarebbe bisogno di alleanze, non di nemici. Di collaborazione, non di frasi da bandiera da stadio.

Eppure Trump continua a scegliere la via più facile e più distruttiva: quella dello scontro. Il suo “Kiss my ass” non è solo un insulto alla Cina. È un insulto all’intelligenza collettiva, alla diplomazia, alla civiltà delle relazioni internazionali.

Il mondo ricorderà questo linguaggio. Ricorderà la retorica della divisione, le offese, la cultura del disprezzo. Ma ricorderà anche le reazioni: quelle di chi ha scelto di rispondere con equilibrio, con fermezza ma senza scendere sullo stesso terreno.

La Cina ha già fatto sapere che non si piegherà. E il resto del mondo – sempre più stanco dell’arroganza americana – potrebbe seguirla.

Se Trump pensa di “far vincere l’America” con i pugni sul tavolo e i dazi sulle frontiere, finirà per costruirsi un impero solitario, circondato da diffidenza e ostilità.

La leadership globale non si conquista con un insulto. Si costruisce con responsabilità, visione e rispetto.

E, al contrario di ciò che Trump sembra credere, la storia ha memoria lunga.

 

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