ORCHESTRA ITALIA, (S)CONCERTO IN FA (OGNUNO QUEL CHE GLI VA)

La direttrice d’orchestra amava ripetere il suo leitmotiv, dal titolo “Io sono Giorgia, sono madre, sono italiana e sono cristiana”, cui poi si è aggiunto, in un crescendo andante con moto, ma poco allegro, “non sono ricattabile”.

La prima stecca l’ha presa il secondo trombone, Vittorio Sgarbi, che ha pennellato un passaggio di troppo su una trama – anzi, una tela – che gli è costata il posto in orchestra; da allora, pur avvezzo ad esibirsi frequentemente in sonori assoli, durante i quali strombazzava di qua e di là il suo tema preferito, dal titolo “Io sono io e voi siete capre” lo Sgarbi ha un po’ perso lo smalto e la voce.

Dalle percussioni non mancava di farsi sentire Emanuele Pozzolo, che amava esibirsi non solo in orchestra ma anche in circostanze ludiche e conviviali, tanto che un suo colpo, solo uno ma efficace,  andava a segno sulla gamba di un convitato. Si trattava non di un colpo di grancassa, di timpano o di rullante, ma di un sonoro colpo di pistola, che ha consentito all’altrimenti oscuro membro dell’orchestra di emergere esibendo tutte le sue doti e capacità espressive.

La seconda vittima delle stecche, in orchestra, anche lei nella sezione dei fiati, è stato il primo piffero, Gennaro Sangiuliano, che era famoso per la tendenza ad andare fuori tempo abbandonandosi a variazioni sul tema che, si scopriva, erano regolarmente fuori tema. È stato costretto a rinunciare al suo pur prestigioso incarico a causa di una non ben chiara vicenda in cui, a quanto pare, egli intendeva far entrare in orchestra una dama dal carattere graffiante con la quale, pur essendo pifferaio, ambiva a fare un duetto di tromba. Poi, come Sgarbi, è passato pure lui al fagotto, nel senso di farlo. Nel suo ruolo subentrava, elegante e raffinato, Alessandro Giuli che esordiva esibendosi da gran virtuoso in “Elucubrazione ipercolta con infiorettatura di paroloni sparpagliati ad libitum con scappellamento a destra”, una supercazzola che manco Antani.

Con voce sicura, rispondendo al canto lugubre e iettatorio del coro in toga rossa, il mezzo soprano (oltre che mezzo imprenditrice, mezzo politica e mezzo ministra, straordinaria somma di metà che danno uno zero; ma ben sonoro, sennò non starebbe in orchestra) Daniela Santanchè intonava il tema ostinato e ribattuto “Io non mi dimetto”, sostenuta dal bordone rauco ma molto pittoresco di Ignazio La Russa, che per duettare con lei interrompeva un torneo di burraco.

In ritardo, tanto per cambiare, arrivava Matteo Salvini, che avrebbe dovuto eseguire un andante in là ma a causa dei ritardi (comunque colpa dell’orchestra precedente) è poi rimasto qua, sempre guardando voglioso verso il posto di Piantedosi, alle percussioni.

Poi giunse il climax, il crescendo che dimostrò tutte le capacità espressive dell’orchestra, quando eseguendo il famoso brano “Non so, non ho visto e se c’ero dormivo”, tratto dall’opera “Fai scappare il torturatore che sennò ci mandano i migranti dalla Libia”, ognuno ha eseguito la sua parte, in un perfetto e totale, stupendamente disarmonico sovrapporsi delle voci del basso-tuba Nordio, del primo percussionista Piantedosi (come percuote lui non percuote nessuno, soprattutto i ragazzini delle scuole), della stessa direttrice d’orchestra: chi diceva che era colpa della magistratura, chi degli agenti segreti tedeschi, chi dei compositori di Bruxelles, chi dello spartito scritto in inglese.

Finché, vibrante e ispirata, si è levata la voce di Bruno Vespa, il primo violino della compagine orchestrale, che come sviolina lui non sviolina nessuno, che ha intonato finalmente il gran finale: “Che c’è di strano, lo fanno tutti”.

Applausi, ovazioni, bene, bravi, bis. E avanti così, che tanto oramai alle stecche non ci fa caso nessuno, e la gente ha altro da pensare, e poi sta pure per cominciare il festival di Sanremo.

Giuseppe Riccardo Festa

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