

Sì, lo so che c’è tanta economia che ci gira intorno. E lo so che non possiamo farci carico dei problemi del mondo intero. Lo so benissimo. È un alibi molto utile e molto comodo.
Ma ieri, entrando in un’edicola, ho visto sugli scaffali la paccottiglia genericamente definita “addobbi natalizi”. Ammennicoli vari: giostrine elettriche con le renne, babbi Natale danzanti al ritmo delle solite “Jingle bells” e “White Christmas”, pupazzetti più o meno stucchevoli, pastori, lavandaie, pecorelle, suonatori di cornamusa (cornamusa in Palestina il 7 a.C.? Mah!), casette, grotte, palline colorate, stelline…
E proprio lì, accanto, c’era un quotidiano con la foto di un padre, al confine tra la Polonia e la Bielorussia, col figlio bambino tra le braccia. Era talmente stridente, l’accostamento, che mi sono vergognato.

Mi sono vergognato del mio progetto di andare a sciare, mi sono vergognato della prospettiva di festeggiare se non il Natale (io che non sono credente), quantomeno le festività di fine anno; dell’idea del cenone, delle feste danzanti (covid permettendo), delle luminarie.
E soprattutto mi sono vergognato dell’ipocrisia: mia, nostra, di tutti.
L’ipocrisia mia, di persona non credente ma comunque con pretese di avere ideali umanitari e civili, di persona laica e in quanto tale fortemente convinta del diritto di tutti a disporre di ciò che è essenziale: un tetto, un letto, un pasto decente, un volto che ti sorride mentre ti accoglie e ti chiama “fratello”.
E l’ipocrisia di chi si dice cristiano, di chi lo urla dai pulpiti e soprattutto dai comizi, di chi sventola rosari e vangeli e poi si rifiuta di offrire a bambini, donne, madri, padri: esseri umani, insomma, che in quanto cristiano dovrebbe considerare fratelli ma al contrario con fastidio definisce “clandestini” e “invasori”, quell’aiuto e quella mano che, stando alla fede che dice di nutrire, dovrebbe essere il suo primo dovere.

Quel dovere, costoro, non lo sentono. Ma anche se lo sentissero; anche se agissero sulla spinta del senso del dovere, ancora non avrebbero il diritto di definirsi cristiani perché non dal senso del dovere ma dallo spirito di fratellanza il vero cristiano, così si legge sui vangeli, dovrebbe essere motivato a porgere aiuto a chi ha bisogno.
Io cristiano non mi proclamo ma questo non mi impedisce di provare un profondo, amaro, inestinguibile senso di vergogna perché, comunque, mi proclamo, questo sì, erede della grande tradizione di civiltà e di umanità che è – che dovrebbe essere – alla base del nostro essere cittadini italiani ed europei.
Quella tradizione la stiamo tradendo lasciando languire e morire migliaia di esseri umani dietro i fili spinati e i reticolati di quella lontana frontiera, restando indifferenti mentre i cannoni ad acqua del cristianissimo esercito polacco assiderano quelle migliaia di esseri umani. Altri ne abbiamo lasciato e continuiamo a lasciarne morire in quell’immenso cimitero che è diventato il mare Mediterraneo.

È pensando a tutto questo che ho deciso, quest’anno – e lo dico già da ora – di pregare chi mi vuole bene di non offendersi se, invece del solito, inutile regalo natalizio, quest’anno da me riceverà una busta con su scritto: Ti voglio tanto bene che ho fatto, a tuo nome, una donazione per i profughi. E gli sarò grato se vorrà fare lo stesso con me. Emergency, Médecins sans Frontières, Save the Children: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Non importa quanto, non voglio nemmeno che ci scrivano sopra l’importo (peraltro, sarebbe di cattivo gusto): sarò molto più felice di ricevere queste buste che un qualunque portafogli, paio di guanti o trapano elettrico.
E poi, se proprio questi inutili regali natalizi vogliamo farli lo stesso, bene, facciamoli; ma ricordiamoci anche di loro: di quei bambini, di quelle madri, di quei padri; di quei nostri fratelli che stanno morendo di freddo e di fame mentre noi, infischiandocene di loro, mettiamo nel presepe i bambini Gesù e cantiamo Jingle Bells, White Christmas e Tu scendi dalle stelle. E abbiamo anche la faccia tosta di guardare il solito film di Natale, versare una lacrimuccia e sentirci tanto buoni.
A noi, in fondo, non costa nulla: si tratta di rinunciare a qualche briciola della nostra opulenza. Per loro si tratta di sopravvivenza.
Giuseppe Riccardo Festa
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