
Forse è anche ridicolo raccontarlo.
Un tempo i bambini di paese, senza molte pretese, avevano nella loro mente scadenzato con il gioco un solo appuntamento l’anno.
Per loro l’abituale ricorrenza dei festeggiamenti del Santo Patrono segnava il momento vero con il gioco materiale. Più che altro con la giostra.
Quella classica con i cavallini pluridecorati su cui si saliva rigorosamente una sola volta durante le tre sere dei festeggiamenti. Quello era il patto sancito dai bambini con i loro genitori. Una comunità di lavoratori agricoli che certo non se la passavano al meglio.
Un’emozione unica e irripetibile che trovava il suo completamento nei giorni precedenti la festa. Quando l’antica famiglia di giostrai, sempre la stessa da generazioni, arrivava in paese e iniziava il montaggio della struttura nella piazza principale dinanzi a al monumento in memoria dei caduti delle guerre.
Un’arte antica fatta di manualità e forza fisica. Il montaggio avveniva attraverso varie fasi. Ciascuna si realizzava nel silenzio più assoluto e con un aumatismo che si ripeteva senza interruzioni.
I bambini di Tarsi al Volturno si davano appuntamento all’inizio del paese. All’incrocio con la strada provinciale. Dove le case si diradavano e c’era l’antica fontana da cui si attingeva l’acqua potabile da bere.
Attendevano lí la carovana dei giostrai la mattina precedente l’inizio della festa. Per poi seguirla in bicicletta lungo tutto il corso del paese tra gride di entusiasmo e una gioia infinita. Uno stupore reale con le cose del mondo.
Un sapore di festa che arrivava sino a dentro le loro case e a cui nessuno voleva rinunciare. Erano fortunati perché la festa padronale capitava a inizio settembre, quando le scuole non erano ancora iniziate e avevano piena libertà di godersela.
Marco e i suoi amici attendevano un anno intero per salire su quei cavallini colorati, rigorosamente di giallo e rosso. Colori vivaci che mai si scolorivano. Ma ciò era dovuto alla gran cura che i giostrai avevano per la struttura, unica loro fonte di vita.
Attendevano pazienti in fila l’avvio della giostra. Una strepitosa attesa che non era mai uguale a quella dell’anno precedente.
I ragazzi mai avrebbero voluto lasciare i cavallini. Un giro su di essi andava via subito, riempiendo, però, la loro incontenibile sete di aspettativa accumulata lungo l’intero anno. Poi arrivava il tempo dell’adolescenza e quella gioia non l’avrebbero più provata.
Che ben tempi. Illuminati da un entusiasmo generoso e naturale. Senza pretese. Finiva subito, ma bastava riprendere confidenza con l’immaginazione, proiettata al nuovo anno, per farsi bastare ogni inutile richiesta.
Voltare le spalle alla festa appena finita significava riprendere la gioia dell’attesa il cui tempo che mancava non sembrava mai un’eternità. Qualcosa che si sarebbe percepito all’indomani della fine della festa.
Tempi e spazi naturali senza che frenesia e capricci li avrebbero scalfiti. Lo stesso non vale oggi. Si é perso quel senso di mistero, ansia e desiderio.
Tutto va troppo di fretta. Non avendo più tempo per gustare i particolari che sono spazzati via frettolosamente, a vantaggio di un mondo troppo uguale per un insignificante spirito di imitazione.
Nicola Campoli
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