
Le destre odiano Bella Ciao, una canzone giovane e antica nello stesso tempo. Una canzone che nasce in tempi remoti: addirittura, si dice, nei villaggi ebrei dell’Europa orientale dove nel loro piccolo, molto prima dello scientifico sterminio nazista, certi pii cristiani, polacchi o bielorussi, organizzavano ogni tanto un pogrom e ammazzavano qualche donna, uomo o bambino, a caso, o sceglievano un rabbino. Giusto perché erano ebrei.
La melodia, elementare ma accattivante, come un fiume carsico si è insinuata ovunque arrivando infine in Italia dove per prime, nelle risaie dove si spaccavano la schiena per due soldi e un sacco di riso, la cantarono le mondine. Poi venne il secolo breve, le due guerre, e soprattutto l’ultima, la più feroce, quella che scientemente fece dei civili dei bersagli da colpire. Quella dei lager, dell’odio razziale con pretese “scientifiche”, delle leggi della rappresaglia. Quella di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema, dei Fratelli Cervi, delle Fosse Ardeatine.
E quella melodia, con parole nuove, divenne un inno partigiano.
Un inno che fu cantato da uomini e donne di ogni appartenenza politica e religiosa – repubblicani, cattolici, liberali, monarchici, socialisti e, ovviamente, anche comunisti – perché le sue parole, di una disarmante ingenuità e proprio per questo capaci di toccare il cuore di tutti, trasmettono un messaggio che non parla di odio ma di un malinconico amore – per la vita e per una donna – al quale si sa rinunciare nel nome di un ideale più alto.
Anche in Germania si cantava una canzone triste che parlava di un amore spezzato dalla guerra. Era Lili Marleen, che non a caso fu infine vietata da Goebbels. Ma Lili Marleen, pur struggente e bellissima, parlava di un lui che rimpiangeva la sua lei: a quella canzone mancavano il senso di comunità e la capacità e il desiderio di superare sé stessi, per sentirsi parte di qualcosa di più grande e più nobile, che invece anima i versi di Bella Ciao.
Le destre odiano questa canzone: dicono che è divisiva.
In fondo hanno ragione, perché a dispetto degli anni che sono trascorsi da allora e a dispetto di tanta vuota retorica che ha circondato e infiacchito il mito della Resistenza, in realtà noi italiani i conti con la Storia non li abbiamo ancora fatti: è per questo che ancora oggi c’è chi può impunemente inneggiare a quello sciagurato Ventennio, rimpiangere il criminale di guerra Benito Mussolini e le sue nefaste imprese, insinuare che la Resistenza fu un fenomeno sostanzialmente criminale, gettare fango sulla ricorrenza del 25 Aprile e, dulcis in fundo, definire Bella Ciao un canto comunista.
Sfido costoro a trovare una sola parola, nel testo di Bella Ciao, che abbia a che fare col comunismo: non la troveranno. Troveranno invece, insieme a Partigiano, un’altra parola, l’ultima, la più bella di tutte e quella che dà il senso all’intera ballata: la parola Libertà.
Dunque sì, le destre hanno ragione. Bella Ciao è davvero un canto divisivo, perché divide coloro che amano la Libertà dagli altri, da loro: da quelli che vorrebbero cancellare la Festa della Liberazione dal calendario delle festività nazionali. Ma la celebrazione di questa ricorrenza è resa tanto più necessaria e doverosa proprio dal fatto stesso che essi vorrebbero cancellarla.
Ecco perché io, sabato prossimo, mi affaccerò sulla strada, di fronte a casa mia, e a tutto volume farò partire la base per cantare prima Bella Ciao e poi l’Inno di Mameli, due canti che considero indissolubilmente legati l’uno all’altro. Perché dobbiamo ricordarcelo tutti, sempre: se non ci fosse stato chi tanti anni fa è salito in montagna cantando Bella Ciao, oggi il nostro inno nazionale non sarebbe Il Canto degli Italiani ma sarebbe ancora quel Giovinezza, Giovinezza tanto caro a Mussolini e ai suoi accoliti e sodali. Con tutte le nefandezze – leggi razziali, alleanza con Hitler, guerre, stragi, abolizione della libertà – che ad esso facevano da corollario.
Viva il 25 Aprile.
Giuseppe Riccardo Festa
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