
In occasione dell’intervista radiofonica alla dott.ssa Diana Olivieri, criminologa e psicologa, , nella rubrica “Cento sfumature di vita” di Jep Bruno, andata in onda lo scorso Radio Antenna Jonica e Radio Delta2000, lo stesso speaker radiofonico ha intervistato la criminologa per Cariatinet, ponendole alcune domande per affrontare il fenomeno della criminalità, le sue origini e la possibile prevenzione.
La dott.ssa Olivieri attualmente è Docente di Criminologia minorile presso l’Università Niccolò Cusano di Roma, ed è Autrice e Curatrice di numerose pubblicazioni nell’ambito della mediazione familiare, con particolare riguardo alla separazione familiare e alle problematiche adolescenziali. In tutto il suo percorso accademico ha sviluppato competenza in ambito Educativo e Formativo, e nel corso degli anni ha approfondito i vari oggetti di studio attraverso una rilettura neuroscentifica, come lo attesta la sua ultima pubblicazione “Le radici neurocognitive dell’apprendimento scolastico” FrancoAngeli Editore.
- Professoressa Olivieri, che cos’è il crimine?
Se commesso da adulti ritenuti sani di mente è un atto aberrante, spesso utilitaristico, che in un determinato periodo storico e culturale è definito come contrario alla legge e dunque penalmente perseguibile. Se commesso da un soggetto minorenne – condizione giuridica che in Italia definisce un ragazzo che non abbia ancora compiuto i 18 anni – al quadro precedente va aggiunta una intrinseca richiesta d’ascolto e un grido d’aiuto. Questo perché spesso un giovane commette il suo primo reato spinto da fondamentali carenze, non semplicemente di natura economica, ma anche e soprattutto di natura affettiva ed emotiva.
In virtù di tali differenze si preferisce a volte usare il termine delinquenza per riferirsi ad azioni commesse da minorenni, che sarebbero invece considerate criminali se commesse da un adulto, così come ad azioni che sono illegali solamente in relazione all’età di chi le commette.
- Ma chi sono i soggetti criminali?
In termini generici, un soggetto viene considerato e definito “criminale” quando, come da definizione precedente, quest’ultimo abbia commesso un reato ed abbia dunque violato la legge penale, indipendentemente dal fatto che sia stato riconosciuto colpevole o meno, considerata l’umana possibilità di incorrere in errori giudiziari.
In realtà si ritiene più appropriato attribuire l’etichetta di “criminale” solamente a quegli individui che hanno subito una condanna penale per riconosciuta colpevolezza, dopo essere stati sottoposti a giusto processo. Si parlerà poi di criminale abituale se il soggetto ha commesso ripetuti reati.
In ambito minorile l’etichettamento è un fenomeno particolarmente rischioso, poiché offre al ragazzo una possibilità di identificarsi in un ruolo, per quanto negativo, che col tempo tende a consolidarsi attraverso il riconoscimento reiterato delle capacità criminali del giovane, che inconsciamente cercherà continue conferme del suo “talento” criminale.
Per questo motivo, oltre che per motivazioni più strettamente psicopedagogiche, al minorenne ultraquattordicenne che abbia commesso un primo reato – sempre che non sia particolarmente grave – vengono spesso riservati percorsi alternativi di reinserimento sociale, per favorirne un percorso di crescita umana e di responsabilizzazione personale, al di fuori delle coercizioni proprie dell’istituzionalizzazione.
- Il minore come sviluppa la devianza?
Partendo dal presupposto che i casi di condizionamento genetico alla delinquenza sono fortunatamente molto rari, va detto che la devianza come percorso di sviluppo può essere considerato costitutivo e caratteristico di ogni adolescenza.
Se analizziamo il concetto di devianza senza attribuire ad esso una valenza sociologica negativa (che in effetti di per sé non ha, pensiamo ad esempio al concetto statistico di devianza, che indica semplicemente una dispersione o distanza dalla media), vedremo che esso indica semplicemente una differenziazione rispetto alla norma, ma ciò non ci dice ancora nulla di positivo o negativo.
L’adolescente inizia un percorso di conoscenza di sé, dei propri gusti personali, delle proprie aspirazioni e dei propri talenti, e in questo percorso è naturale che, dati gli scarsi strumenti di autoconsapevolezza di cui dispone, debba necessariamente trovare il modo di distinguersi dalla massa (dunque dalla media) per trovare se stesso. Può farlo dedicandosi alla musica, al disegno fumettistico o alle improvvisazioni teatrali, ma non solo. Ricordiamoci che in adolescenza il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male, è viziato dal bisogno di trasgredire a tutti i costi.
È proprio in questa fase di accresciuta vulnerabilità, sia fisiologica che psicologica, che il giovane, se mancante di adeguato supporto da parte delle agenzie di socializzazione primaria e secondaria – ossia la famiglia e la scuola – rischia di rivolgersi altrove, alla ricerca di un sostegno al suo sviluppo come persona, che fino a quel momento sente che gli è venuto a mancare.
L’assenza di figure adulte responsabili e d’autorità nella vita di questi ragazzi stabilmente devianti, in aggiunta a fenomeni di povertà e di mancanza di educazione, li rende una popolazione estremamente vulnerabile alla criminalizzazione.
Nel vuoto relazionale che lo circonda (il che non significa che la famiglia non ci sia, ma che magari non ascolta abbastanza e si disinteressa delle aspirazioni e dei sogni che pure il figlio cerca di raccontare), spesso il giovane riceve la sua nuova “carta d’identità” unendosi a gruppi di altri giovani, spesso “sbandati” e ugualmente inascoltati, che vivono la strada come se fosse la loro casa, che mettono in atto azioni dimostrative della loro “forza”, spesso senza rendersi neanche conto inizialmente di commettere reati. La violazione della legge, infatti, inizialmente assume un valore simbolico.
Il gruppo deviante diventa una famiglia sostitutiva, che offre al singolo quell’appoggio morale e materiale, indispensabile per superare il limite tra lecito e illecito. E se la condizione si rivela favorevole da diversi punti di vista, per cui il giovane che ha commesso il suo primo reato (ad esempio il furto di un’automobile) viene gratificato e osannato, magari dal capo della banda più grande di lui, ottiene con il tempo vantaggi economici, si riconosce finalmente vincente in qualcosa, ecco che aumenta il rischio che la fase dello “stage” venga superata e che, stabilizzata ormai la condotta delinquenziale, quest’ultima sfoci in una vera e propria carriera criminale.
Fortunatamente nella maggior parte dei casi si tratta di fenomeni transitori, vere e proprie prove di coraggio, riti di iniziazione per emanciparsi dalla fanciullezza, assimilabili all’assenteismo scolastico, al tingersi i capelli di blu o al farsi il primo tatuaggio, rivendicazioni di possesso del proprio tempo e del proprio corpo.
- Ma secondo Lei, la famiglia come può proteggere il minore dalla devianza?
Proteggere un figlio dalla devianza è impossibile e forse nemmeno funzionale alla sua crescita sana, direi piuttosto che la famiglia può aiutare il figlio ad orientare la sua devianza in modo positivo, sostenendolo e incoraggiandolo, ad esempio, nell’espressione delle sue potenzialità, siano esse artistiche o artigianali o di altro tipo. Ovviamente per farlo è necessario che i genitori conoscano il figlio, che può sembrare un concetto scontato, ma di fatto non lo è.
Ciò non significa che la famiglia debba giustificare o insabbiare le azioni del figlio, magari per vergogna o per paura dell’opinione della gente. Significa piuttosto dedicare del tempo alla comunicazione, in particolare alla gestione dei conflitti che maturano inevitabilmente in ogni famiglia. Ciò può essere realizzato, ad esempio, attraverso un percorso di mediazione familiare che miri a risolvere problemi di comunicazione disfunzionale, o peggio, di assenza di comunicazione.
Mi viene in mente a tal proposito il video di un famoso gruppo musicale grunge, i Pearl Jam, il brano si intitola “Jeremy” e racconta un fatto di cronaca nera realmente avvenuto in Texas, la vicenda di Jeremy Wade Delle, un ragazzino di 16 anni, inascoltato e problematico, deriso dai compagni di classe e ignorato da entrambi i genitori divorziati, che una mattina entra in classe armato di un Revolver .357 Magnum e si suicida con un colpo in bocca di fronte a 30 compagni di classe e all’insegnante, nell’estremo tentativo di ricevere un po’ di attenzione. Si scoprirà di lì a poco che il ragazzo aveva scritto in alcuni suoi appunti che avrebbe voluto parlare delle sue cose, della sua vita, ma che nessuno sembrava disposto ad ascoltarlo. All’epoca io avevo 13 anni e per la messa in rotazione del video in televisione al regista fu imposto di eliminare dal filmato i fotogrammi in cui si vedeva il ragazzino infilare l’arma in bocca e premere il grilletto. All’epoca si parlava poco di disagio adolescenziale, ancor meno di bullismo e di famiglie disfunzionali, ed occultare le verità era spesso considerata la modalità migliore per non sconvolgere i benpensanti. I benpensanti, non gli adolescenti, perché noi adolescenti il significato di quella canzone e di quel video lo avevamo capito benissimo. L’eliminazione di quel fotogramma, ossia della richiesta d’attenzione, era lo specchio dell’insabbiamento di una verità di disagio, difficile da accettare per il mondo degli adulti, ma camuffata da una volontà di tutela nei confronti di noi giovani.
La famiglia ha l’occasione di offrire barriere protettive ben più adeguate contro l’innesco del disagio evolutivo, che può esprimersi anche in coinvolgimento delinquenziale.
Un elemento indispensabile per garantire protezione al minore è certamente la supervisione, che andrebbe applicata molto prima (in adolescenza è già troppo tardi, il ragazzo deve avere già interiorizzato una capacità di automonitoraggio), quando il figlio inizia ad emanciparsi dal controllo familiare per rivolgersi a nuovi agenti di socializzazione, al di fuori della propria abitazione e del vicinato più stretto.
In tal senso, il genitore supervisore deve porsi come primo modello di ruolo per il figlio, deve dimostrarsi coerente nelle punizioni inflitte al figlio e partecipante ai successi di quest’ultimo, favorendone il modellamento positivo attraverso l’osservazione del suo modo di comportarsi e di agire.
Del resto i figli sono i massimi censori del comportamento genitoriale, in particolare nel periodo che precede l’adolescenza, che li vede particolarmente severi nei loro giudizi e attenti alle incongruenze tra ciò che viene detto e ciò che viene fatto.
Recentemente ho molto apprezzato le toccanti parole della madre del quindicenne Giò, ragazzo sensibile che stava vivendo un periodo di chiusura adolescenziale, morto suicida a Lavagna dopo una denuncia per possesso di pochi grammi di droga. La donna ha chiesto perdono al figlio che non c’è più per non averlo capito, e oltre a mettere in guardia i giovani sui rischi dell’assunzione di sostanze stupefacenti, li ha anche spronati a divenire “protagonisti della loro vita”, a “cercare lo straordinario”, invitando al contempo i genitori a comunicare con i loro figli, a superare la “fatica di parlarsi”. Parole sante.
- ssa Diana oggigiorno, La scuola che ruolo svolge nella rieducazione di un minore?
Oggi al concetto di rieducazione, intesa come disapprendimento del comportamento deviante e modificazione o ricondizionamento comportamentale, si è andato progressivamente sostituendo quello di promozione del benessere e “potenziamento” o empowerment personale.
I programmi scolastici che mettono in primo piano la gestione disciplinare e soprattutto l’offerta didattica, con un occhio di riguardo alle competenze sociali, si sono dimostrati i più efficaci a favorire uno sviluppo sano.
Se la scuola è vissuta con noia e insoddisfazione, e non riesce ad offrire opportunità di coinvolgimento piacevole, è ovvio che i ragazzi cercheranno strutture alternative che possano impegnarli per ottenere esperienze gratificanti. Gli studenti spesso si sentono del tutto estranei alle attività che la scuola propone loro. Alcuni studenti addirittura non riescono a percepire alcuna utilità nella scuola, ai loro occhi la scuola non ha nulla da offrire loro. Ovviamente la scuola non può e non deve adattarsi ad un simile fallimento, ma deve reagire di conseguenza.
Del resto l’impegno più valido per il nostro futuro è proprio investire nelle vite dei giovani e lo sviluppo di competenze costituisce la migliore tra le possibili strategie preventive per scongiurare il disadattamento sociale e la focalizzazione sul talento criminale, consentendo al giovane di esplorare le sue intelligenze personali.
Abbiamo, a tal proposito, almeno due esempi di impegno a cui fare riferimento.
Il primo è un dato paradossale, e cioè che quello che dovrebbe essere offerto dalla scuola in tema di esplorazione delle proprie, multiformi intelligenze viene, in alcune realtà italiane, proposto proprio dagli istituti di pena minorili, che in tal senso si dimostrano assolutamente all’avanguardia. Pensiamo a Catania, dove è stato attivato un protocollo d’intesa per l’organizzazione di laboratori di scrittura creativa, a Catanzaro, dove i giovani detenuti si incontrano periodicamente con importanti scrittori siciliani e hanno la possibilità di scambiare idee con loro e dove è stabilmente attivo un servizio di orientamento; e ancora, a Milano, dove vengono proposti tirocini, borse di lavoro e simulazioni d’impresa, a Torino e Palermo, dove sono attivi ormai da tempo laboratori professionali artigianali e dove ai giovani detenuti sono messe a disposizione innumerevoli strumentazioni professionali per esplorare il mondo della panetteria, della pasticceria e della cioccolateria, con successiva vendita dei prodotti realizzati dai ragazzi stessi, all’esterno dell’istituto.
Vere e proprie scuole dei talenti, potremmo dire, che potrebbero servire in molti casi da modello per tante realtà scolastiche noiose e poco rispondenti ai bisogni dei ragazzi.
Il secondo esempio è il decreto legge, firmato il 27 aprile 2016, che prevede l’apertura straordinaria delle scuole medie e superiori, al di fuori degli orari scolastici, in una serie di progetti di lotta all’abbandono scolastico e al rischio di criminalizzazione di questi ragazzi abbandonati alla strada, specialmente nelle realtà delle periferie più degradate delle grandi metropoli.
Con il progetto “La scuola al centro”, in particolare, sono stati investiti 10 milioni di euro per rendere le scuole di alcuni quartieri ritenuti “a rischio” delle città di Milano, Roma, Napoli e Palermo, un polo di aggregazione e attrazione, un centro aperto ai ragazzi e alle loro famiglie, in grado di rispondere tempestivamente al disagio sociale, secondo le testuali parole dell’ex-ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, attraverso la promozione di iniziative sportive, artistiche, musicali e teatrali. Il progetto si spera proseguirà con il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di città e di istituti scolastici.
Si tratta, in entrambi i casi, di iniziative di contrasto più che lodevoli, nel primo caso per scongiurare le recidive, nel secondo caso per bloccare sul nascere l’instaurarsi di un eventuale percorso di criminalizzazione.
- Finora ci siamo occupati dei due principali agenti che interagiscono in modo diretto con il minore, ovvero la famiglia e la scuola. Ora invece, vorrei chiederle che ruolo riveste la Società nella crescita e nello sviluppo del minore?
Fondamentale direi, se intendiamo il concetto di società come espressione dei principali nuclei di socializzazione umana, ossia famiglia, scuola e collettività, ai quali oggi viene riconosciuto un ruolo centrale in ogni progetto di formazione e prevenzione. Soprattutto pensiamo al ruolo della formazione umana nella costruzione del valore della persona in quanto tale.
In un mondo caratterizzato da una generale insicurezza sociale, lo spostamento d’interesse dal concetto di prevenzione della devianza a quello di promozione del benessere personale è da ricondursi certamente ai numerosi studi che hanno dimostrato come le azioni formative che mirano alla scoperta delle intelligenze personali e all’incremento delle competenze e dei talenti giovanili siano le migliori, sia per far fronte ai rischi evolutivi, sia per accompagnare i normali compiti legati allo sviluppo.
Una prospettiva pedagogica che facendosi investimento sociale in termini più ampi, non trascuri gli orizzonti culturali del mondo contemporaneo, con le sue complessità sociali e le problematiche legate all’accettazione delle diversità e alla globalizzazione dei processi economici e comunicativi.
Solo in questo modo il giovane potrà proiettarsi nell’immagine dell’adulto che sarà, un adulto competente, responsabile, che dia sfogo all’espressione dei suoi talenti, che sia in grado di conferire significato alla propria esistenza e alle proprie scelte di vita.
Si tratta, in poche parole, di promuovere socialmente nei nostri giovani un’etica della trasformazione, che li impegni in attività finalizzate all’espressione positiva di sé. Sappiamo quanto la duttilità adolescenziale renda questo periodo della vita particolarmente ricco di potenziale trasformativo, e ciò può rappresentare un grande vantaggio.
Se tale potenziale trasformativo non viene messo all’opera, allora a prendere il sopravvento, soprattutto nei casi di degrado sociale e comunitario, saranno le attività non-normative devianti, che la mente del giovane potrà riformulare come personali attività trasformative. L’esclusione patita diventerà allora un distintivo da mostrare. É questa traiettoria di emarginazione che dobbiamo necessariamente intercettare.
Per i giovani di oggi la transizione alla vita adulta, sempre più lontana ed incerta, richiede da parte nostra uno sforzo collettivo.
Chiediamoci però, ed è questo l’elemento critico, quanto sia disposta la società ad investire sulle popolazioni più vulnerabili, di cui il mondo giovanile fa parte.
Le politiche governative in tema di delinquenza minorile devono lottare costantemente per trovare un giusto equilibrio tra la necessaria preoccupazione per la crescita sana dei giovani che violano la legge, e la valenza rieducativa della punizione. La tensione tra queste due forze determina un orientamento ambivalente verso i giovani che commettono reati, ai quali spesso è venuta totalmente a mancare una sana educazione di base, così come una qualsiasi forma di sostegno nel loro processo di crescita, che dovrebbe essere dunque l’obiettivo ultimo delle politiche sociali che riguardano tutti i giovani, compresi gli autori di reato.
A questa ambivalenza, ad esempio, l’Austria risponde descrivendo i reati giovanili come una fase di passaggio spesso normale nello sviluppo, motivo per cui sceglie di rispondere attraverso una giustizia riparativa. Va detto che anche l’Italia si sta muovendo, con esempi sempre più concreti, in tale direzione di tutela.
I cambiamenti strutturali nella società, che comprendono la diminuzione delle famiglie bigenitoriali e la maggiore frequenza di madri lavoratrici hanno contribuito a far diminuire le risorse necessarie per la supervisione del tempo libero di giovani e giovanissimi, che se non finiscono col bighellonare senza meta per le strade, nella migliore delle ipotesi finiscono ipnotizzati davanti alla televisione «cattiva maestra», o al personal computer «pessimo tutore».
La società è pronta ad offrire ai suoi ragazzi input culturali nuovi, che non siano solamente i litigi tra i concorrenti di un Reality Show, la lotta fratricida tra i partecipanti a sedicenti Talent Show, dove istruttori inflessibili distruggono l’autostima degli avversari, umiliandoli pubblicamente, le urla scomposte e le parolacce che rendono volgari troppi Talk Show, con l’impressione che a vincere sia sempre il più forte, e che il più forte sia sempre il più litigioso, il più egoista, il più volgare (perché, apparentemente, si fa rispettare)? Se le prospettive rimarranno queste, allora c’è poco da sperare in un cambiamento.
Se invece, come sta accadendo di recente, anche i mezzi di comunicazione di massa inizieranno a fare qualche passo avanti verso argomenti più importanti, come la costruzione dell’autostima, il problem solving non violento, la responsabilità personale e sociale, la non discriminazione e l’apprezzamento della diversità, allora resta aperta qualche speranza di risanamento sociale.
Penso alla recente campagna contro il bullismo, che vede personaggi noti e amati dai giovani schierati a favore della denuncia e della solidarietà nei confronti di chi subisce, penso in particolare allo spot contro il bullismo, realizzato dai ragazzi della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano, una piccola opera d’arte di forte impatto e di facile fruizione, dove si invitano i giovani a fare fronte comune contro ogni forma di prevaricazione violenta, che non riguarda solo il singolo che subisce, ma riguarda tutti.
GIUSEPPE BRUNO
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