
■Antonio Loiacono
La “vexata quaestio” legata alla gestione dei migranti in Albania è tanto delicata quanto intricata. La vicenda solleva seri interrogativi, non solo di natura giuridica, ma anche sul piano umanitario, poiché evidenzia le sfide che sia i migranti che il personale coinvolto nel progetto devono affrontare.
I 12 migranti, provenienti da Bangladesh ed Egitto, si trovano attualmente in una situazione di profonda incertezza legale. Dopo essere stati trasferiti in Albania, sono stati riportati in Italia in seguito a un’ordinanza del tribunale di Roma, ma rimangono bloccati presso il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) di Bari Palese. Si tratta di una evidente ingiustizia dal punto di vista legale, poiché è stata applicata una procedura accelerata di frontiera che non avrebbe dovuto essere utilizzata, visto che i migranti non provengono da Paesi classificati come sicuri. Questo aspetto mette seriamente in discussione la legittimità dell’intero processo e solleva perplessità sulla regolarità delle procedure seguite.
Il diritto di asilo, riconosciuto a livello internazionale, dovrebbe garantire un esame equo e approfondito delle richieste di protezione. Tuttavia, tali garanzie non sono state rispettate: la commissione territoriale che si è occupata delle domande di asilo in Albania non includeva alcun rappresentante dell’Alto commissariato per i rifugiati (UNHCR), un’assenza significativa che compromette la legittimità delle decisioni prese. Inoltre, la procedura stessa appare accelerata e orientata al rigetto, con ostacoli aggiuntivi posti ai legali per impedire la presentazione di ricorsi.
Questa situazione non solo viola i diritti dei migranti, ma crea una condizione di profonda incertezza per queste persone, già segnate da esperienze traumatiche nei Paesi di origine e lungo le rotte migratorie. Il sistema appare quindi inefficiente e, per certi versi, volutamente macchinoso nel tentativo di evitare che i migranti possano far valere i propri diritti.
Un altro aspetto che emerge in maniera significativa è il disagio del personale della polizia penitenziaria inviato in Albania per gestire il carcere di Gjader e le altre strutture di accoglienza per migranti. Gli agenti lamentano condizioni di lavoro inadeguate, con alloggi precari ed una mancanza di rispetto delle normative contrattuali. Questa insoddisfazione, espressa dal sindacato di categoria, non solo evidenzia una cattiva gestione logistica e organizzativa, ma riflette anche una carenza di considerazione da parte delle autorità nei confronti del personale inviato in missione all’estero.
Il malcontento degli agenti si intensifica a causa dell’incertezza riguardo al loro incarico. Le strutture destinate all’accoglienza dei migranti, infatti, risultano attualmente inutilizzate, generando uno spreco economico significativo. Questi centri, dispendiosi da gestire, non vengono impiegati in modo efficiente a causa di una questione politico-giuridica ancora irrisolta. Gli agenti, il cui compito sarebbe di garantire la sorveglianza e la gestione delle strutture, si trovano così in una situazione di attesa che accentua ulteriormente la loro insoddisfazione.
Il progetto Italia-Albania si configura come un vero e proprio “caos politico-giudiziario”: le infrastrutture realizzate, come il Centro per il rimpatrio (Cpr) e il carcere di Gjader, comportano costi elevati, ma risultano attualmente non utilizzate. Questo spreco di risorse rappresenta un ulteriore aspetto problematico, poiché evidenzia come un’iniziativa nata per ridurre la pressione migratoria sull’Italia stia invece dimostrando di essere inefficace e onerosa.
Le difficoltà riscontrate nell’amministrazione delle pratiche di asilo e nel funzionamento delle strutture di accoglienza in Albania sollevano dubbi sulla legittimità del protocollo siglato tra i due Paesi. Da un lato, il governo italiano mirava a trasferire altrove il processo di accoglienza e valutazione delle domande di asilo per alleggerire la pressione interna; dall’altro, il risultato è un quadro giuridico ambiguo che sembra non tutelare adeguatamente né i diritti dei migranti né le esigenze operative del personale impiegato.
Da una parte, i migranti si trovano in un “cul-de-sac” giuridico, vittime di procedure non conformi agli standard internazionali, che sembrano studiate per ostacolare l’accesso alla giustizia. Dall’altra, gli agenti della polizia penitenziaria inviati in Albania si trovano a operare in condizioni inadeguate, con strutture inutilizzate in un contesto politico incerto.
In definitiva, questo progetto appare non solo mal amministrato, ma anche in contrasto con i principi umanitari e giuridici che dovrebbero orientare le politiche di asilo e migrazione. Le contestazioni, sia da parte dei migranti che del personale addetto alla sicurezza, evidenziano un fallimento organizzativo e morale che richiede un intervento immediato per garantire il rispetto dei diritti umani e l’efficacia delle strutture preposte.
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