In morte di papa Francesco

di Don Gaetano Federico


Questa mattina è arrivata la notizia che mai avremmo voluto sentire: la morte di papa Francesco. Lo ha reso noto Sua Eminenza, il Card Farrell: “Carissimi fratelli e sorelle, con profondo dolore devo annunciare la morte di nostro Santo Padre Francesco. Alle ore 7:35 di questa mattina il Vescovo di Roma, Francesco, è tornato alla casa del Padre. La sua vita tutta intera è stata dedicata al servizio del Signore e della Sua chiesa. Ci ha insegnato a vivere i valori del Vangelo con fedeltà, coraggio e amore universale, in modo particolare a favore dei più poveri ed emarginati. Con immensa gratitudine per il suo esempio di vero discepolo del Signore Gesù, raccomandiamo l’anima di Papa Francesco all’infinito amore misericordioso di Dio Uno e Trino”. Già ieri, durante la benedizione urbi et orbi, in occasione della S. Pasqua ce lo presentava nel consueto ultimo stato: voce flebile, movimenti lenti. Ho avuto una sensazione non piacevole, soprattutto per i movimenti della bocca e del volto, però da qui ad una morte abbastanza subitanea ce ne vuole. Tanto hanno fatto i medici del Gemelli nei mesi scorsi per fargli superare la polmonite bilaterale e sembrava che ormai fosse alle spalle. Ma bisogna tenere conto dell’età avanzata e degli altri acciacchi. Il Vaticano ha quindi reso noto che, secondo quanto previsto nell’Ordo Exsequiarum Romani Pontificis, “questa sera alle ore 20 nella Cappella di Santa Marta, il cardinale Kevin Joseph Farrell, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, presiederà il rito della constatazione della morte e della deposizione della salma nella bara”. Matteo Bruni, direttore della sala stampa vaticana, ha poi comunicato che il Giubileo “resta aperto”.  Addio a Bergoglio, l’argentino che ha rivoluzionato la Chiesa. «Già da adesso tantissime persone si stanno avvicinando verso il Vaticano. Sono stati immediatamente rafforzati i servizi, l’avvicinamento è notevole», spiega il prefetto, Lamberto Giannini, al termine del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza in prefettura a cui hanno partecipato i vertici delle forze dell’ordine capitoline, rappresentanti della gendarmeria vaticana e il sindaco Roberto Gualtieri. «Ognuno per le proprie competenze ha iniziato a far sì che questo altro evento grandissimo possa svolgersi in sicurezza e con il rispetto dovuto al Pontefice», aggiunge Giannini.

È stato primo in tante cose Papa Francesco. Primo Papa gesuita, primo Papa originario dell’America Latina, primo a scegliere il nome di Francesco senza un numerale, primo ad essere eletto con il predecessore ancora in vita, primo a risiedere fuori dal Palazzo Apostolico, primo a visitare terre mai toccate da un Pontefice – dall’Iraq alla Corsica -, primo a firmare una Dichiarazione di Fratellanza con una delle maggiori autorità islamiche. Primo Papa anche a dotarsi di un Consiglio di cardinali per governare la Chiesa, ad assegnare ruoli di responsabilità a donne e laici in Curia, ad avviare un Sinodo che ha coinvolto in prima battuta il popolo di Dio, ad abolire il segreto pontificio per i casi di abusi sessuali e depennare dal Catechismo la pena di morte. Primo, ancora, a guidare la Chiesa mentre nel mondo non infuria «la» guerra ma tante guerre, piccole e grandi, combattute «a pezzi» nei diversi continenti. Una guerra che «è sempre una sconfitta», come ha ripetuto negli oltre 300 appelli, anche quando la voce veniva a mancare, che hanno occupato tutti gli ultimi pronunciamenti pubblici dopo la deflagrazione delle violenze in Ucraina e Medio Oriente.

Ma Francesco, probabilmente non avrebbe voluto che il concetto di “primo” venisse associato al suo pontificato, proiettato in questi 12 anni non a raggiungere traguardi o guadagnare primati, bensì ad avviare «processi». Processi in corso, processi conclusi o lontani, processi probabilmente irreversibili anche per chi gli succederà sul soglio di Pietro. Azioni che generano «nuovi dinamismi» nella società e nella Chiesa – come ha scritto nella road map del pontificato, la Evangelii gaudium – sempre nell’orizzonte dell’incontro, dello scambio, della collegialità.

«Incominciamo questo cammino, vescovo e popolo», sono state le prime parole pronunciate dalla Loggia delle Benedizioni, in una tarda serata del 13 marzo 2013, ad una folla che gremiva Piazza San Pietro da un mese sotto i riflettori dopo la rinuncia di Benedetto XVI. A quella folla il neo eletto Papa 76enne, scelto dai confratelli cardinali «dalla fine del mondo», chiese la benedizione. Con la gente volle recitare un’Ave Maria, incespicandosi in un italiano fino a quel momento non esercitato assiduamente, viste le rare visite a Roma del pastore di Buenos Aires, pronto a farsi le valigie subito dopo il Conclave. E alla gente, il giorno successivo, volle rendere un saluto ravvicinato recandosi in auto nella parrocchia di Sant’Anna e poi a Santa Maria Maggiore, ringraziando la Salus Populi Romani, protettrice del suo pontificato, a cui ha continuato a rendere omaggio in ogni momento forte. E proprio nella Basilica liberiana Francesco ha espresso la volontà di essere sepolto.

La vicinanza al popolo, retaggio del ministero argentino, il Papa l’ha manifestata in tutti gli anni a venire in vari modi: con le visite ai dipendenti vaticani negli uffici, con i Venerdì della Misericordia nel Giubileo del 2016 in luoghi di emarginazione ed esclusione, con i Giovedì Santo celebrati in carceri, case di cura e centri accoglienza, con il lungo tour in parrocchie dei sobborghi romani, con visite e telefonate a sorpresa. E l’ha manifestata in ogni viaggio apostolico, a partire dal primo in Brasile nel 2013, ereditato da Benedetto, di cui si ricorda il fotogramma della papamobile bloccata in mezzo alla folla.

Quarantasette i pellegrinaggi internazionali del Pontefice argentino, realizzati in base a eventi, inviti di autorità, missioni da compiere oppure a qualche «movimento» interiore, come egli stesso rivelò nel volo di ritorno dall’Iraq. Sì, proprio l’Iraq: tre giorni nel marzo 2021 tra Baghad, Ur, Erbil, Mosul e Qaraqosh, terre e villaggi con ancora evidenti cicatrici di matrice terroristica, con il sangue sui muri e le tende degli sfollati lungo le strade, nel mezzo della pandemia di Covid e di preoccupazioni generali per la sicurezza. Un viaggio sconsigliato da molti per la salute e il rischio attentati; un viaggio voluto a tutti i costi. Il viaggio «più bello», ha sempre confidato Francesco stesso, primo Papa a calpestare la terra di Abramo, là dove Giovanni Paolo II non riuscì ad andare, e ad avere un colloquio con il leader sciita Al-Sistani.

Una buona ostinazione lo spinse in Iraq, uguale a quella che nel 2015 lo portò a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana ferita da una guerra civile che negli stessi giorni della visita lasciava morti per strada. Nel Paese africano, dove disse di voler andare anche a costo di buttarsi «col paracadute», Francesco aprì la Porta Santa del Giubileo della Misericordia con una cerimonia commovente che, anch’essa, segna il primato di un Anno Santo aperto non a Roma ma in una zona tra le più povere del mondo. E si può definire buona ostinazione anche quella che ha animato la scelta di intraprendere a 87 anni il viaggio più lungo del pontificato nel settembre 2024: Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor-Leste, Singapore. Quindici giorni, due continenti, quattro fusi orari, 32.814 km percorsi in aereo. Quattro universi differenti, ognuno a rappresentare i temi portanti del magistero: fratellanza e dialogo interreligioso, periferie ed emergenza climatica, riconciliazione e fede, ricchezza e sviluppo a servizio della povertà.

E non si può dimenticare, ripercorrendo i viaggi apostolici e le visite pastorali, la primissima trasferta fuori Roma, nella piccola isola di Lampedusa scenario di grandi tragedie migratorie, con la corona di fiori gettata nel Mediterraneo «cimitero a cielo aperto». Denuncia reiterata anche nel doppio viaggio a Lesbo (2016 e 2021) nei container e tendoni di profughi e rifugiati.

Nella storia del pontificato, anche il viaggio in Terra Santa (2014); in Svezia, a Lund (2016) per le celebrazioni dei 500 anni della Riforma luterana; in Canada (2022) con la richiesta di perdono alle popolazioni indigene per gli abusi subiti da rappresentanti della Chiesa cattolica. E poi Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan (2023), quest’ultima tappa condivisa con il primate anglicano, l’arcivescovo Justin Welby, e il moderatore dell’assemblea generale della Chiesa di Scozia, Ian Greenshields, a voler rimarcare la volontà ecumenica di curare le ferite di un popolo. Le stesse che aveva implorato di risanare ai leader sud sudanesi, riuniti nel 2019 per due giornate di ritiro a Santa Marta, concluse col gesto dirompente di baciare loro i piedi.

E ancora, Cuba e Stati Uniti (2015), viaggio a suggello dell’allacciamento delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Un avvenimento storico per il quale Francesco si è speso per mesi, inviando lettere a Barack Obama e Raúl Castro per esortarli ad «avviare una nuova fase». Fu Obama stesso a ringraziare pubblicamente il Pontefice. A L’Avana anche l’incontro con il patriarca ortodosso di Mosca Kirill e la firma di una dichiarazione comune per mettere in pratica l’«ecumenismo della carità», l’impegno dei cristiani per un’umanità più fraterna. Impegno divenuto, anni dopo, tragicamente attuale e in qualche modo disatteso con lo scoppio di una guerra nel cuore dell’Europa.

Non ultimo, tra i viaggi, Abu Dhabi (2019) e il Documento sulla Fratellanza Umana siglato insieme al grand imam al-Tayeb, a coronamento del disgelo con l’università sunnita di Al-Azhar iniziato con un abbraccio a Santa Marta e concluso con la firma di un testo divenuto da subito caposaldo del dialogo islamico-cristiano, recepito pure in diverse Costituzioni.

Esperienze, dialoghi, gesti vissuti in questi viaggi sono confluiti nei documenti del pontificato. Quattro le encicliche: la prima, Lumen Fidei, sul tema della fede, a quattro mani con Benedetto XVI; poi la Laudato si’, grido per invocare un «cambiamento di rotta» per la «casa comune» messa in ginocchio da cambiamenti climatici e sfruttamento e stimolare ad un’azione volta allo sradicamento della miseria e all’accesso equo alle risorse del pianeta. La terza enciclica, la Fratelli Tutti, asse portante del magistero, frutto del Documento di Abu Dhabi, profezia – prima della deflagrazione di nuove guerre – della fraternità come unica via per il futuro dell’umanità. Infine la Dilexit Nos per ripercorrere tradizione e attualità del pensiero «sull’amore umano e divino del cuore di Gesù» e lanciare un messaggio a un mondo che sembra aver perso il cuore.

Sette, invece, le esortazioni apostoliche: dalla già citata Evangelii Gaudium fino a C’est la confiance, per i 150 anni della nascita di Teresa di Gesù Bambino. In mezzo, le esortazioni post-sinodali – Amoris Laetitia (Sinodo sulla famiglia), Christus Vivit (Sinodo sui giovani), Querida Amazonia (Sinodo per la Regione Pan-Amazzonica) –, la Gaudete et Exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, la Laudate Deum, ideale seguito della Laudato si’ per completarne l’appello a reagire per la madre Terra prima di un «punto di rottura».

Quasi 60, invece, i Motu Propri per riconfigurare le strutture della Curia Romana e il territorio della Diocesi di Roma, modificare il Diritto Canonico e l’ordinamento giudiziario vaticano, per emanare norme e procedure più stringenti nella lotta agli abusi. È il caso di Vos estis lux mundi, documento che ha recepito risultati, indicazioni, raccomandazioni del Summit sulla protezione dei minori in Vaticano, nel febbraio 2019. Un vertice che ha rappresentato l’acme del lavoro di contrasto alla pedofilia del clero e agli abusi non solo sessuali; un’espressione della volontà della Chiesa di agire con verità e trasparenza in atteggiamento penitenziale. Con Vos estis lux mundi Francesco ha stabilito nuove procedure per segnalare molestie e violenze e introdurre il concetto di accountability, assicurare, cioè, che vescovi e superiori religiosi rendano conto del loro operato.

Era il papa che guardava lontano: il Giubileo della speranza che ha aperto lo scorso dicembre lo spingeva ad incontri con le comunità cattoliche e cristiane di tutto il mondo. Tanti erano i progetti che avrebbe desiderato realizzare, ma si è aperto al mistero della sofferenza e della morte che ha accolto con coraggio e verità. Un vero uomo che ha combattuto fino alla fine donando dignità a chi soffre e facendo si, che come Giovanni Paolo II, il policlinico Gemelli divenisse un nuovo luogo da dove, col silenzio, poter evangelizzare. Lo accompagniamo con la nostra preghiera, la nostra gratitudine per tutto quello che ha fatto, per aver dato voce agli ultimi, per l’orientamento che ha dato alla Chiesa, per lo sguardo alle periferie esistenziali. Grazie papa Francesco; tu hai chiesto preghiere per il tuo magistero, ora dal cielo prega per noi.

Don Gaetano Federico

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