GLI ITALIANI VOGLIONO DAVVERO LOTTARE, COME I FRANCESI, CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE?

Mentre in Francia succede che una donna coraggiosa, Gisèle Pelicot, fa sbattere in galera l’ex marito (p)orco e i di lui compari che l’hanno drogata e violentata per anni, in Italia, in un giorno in cui ci sono due femminicidi, la metà del mondo dello spettacolo, gridando alla censura, prende le difese del trapper Tony Effe che nei suoi testi inneggia alla violenza, ivi inclusa la violenza sulle donne, fisica e sessuale.

Certo, è facile, dopo aver letto anche solo qualche frase dalle “canzoni” di quel tale Nicolò Rapisarda, trapper di anni 34, in “arte” Tony Effe, decidere che è ripugnante, volgare, squallido e violento. Tanto più è facile se si ha una certa età e si è cresciuti ascoltando non dico Monteverdi, Mozart o Respighi, ma anche “semplicemente” Frank Sinatra, Charles Aznavour, Tom Jones o ancora i Deep Purple, i Pink Floyd o i Led Zeppelin, i Beatles, Beach Boys e i Rolling Stones o i Dik-Dik, l’Equipe 84, i New Trolls e, che so? Vecchioni, Battisti, De Andrè, De Gregori… Musicisti dei generi più diversi ma tutti in possesso, per quanto riguarda i loro spartiti, di una precisa caratteristica: la loro musica ha una forma e una struttura melodica che permettono di ricordarla e di ripeterla, che si tratti di un’aria dal “Combattimento di Tancredi e Clorinda”, dal Don Giovanni, dai “Pini di Roma”, o di “Penny Lane”; “Ruby Tuesday”, “The wall”, “Smoke on the water”, “Good vibrations”, “Quella carezza nella sera”, “Wish you were here”, “Samarcanda”, “29 settembre”, “Cantico dei drogati” o “Rimmel”.
I trapper, e più in generale i frequentatori del mondo del rap, questa caratteristica non ce l’hanno. Ci si ostina a chiamare “canzoni” ciò che producono, ma nella loro produzione manca proprio la caratteristica basilare di ciò che – prima di loro – era considerato determinante in una canzone, e cioè la cantabilità.

Detto questo, si pone poi il problema dei contenuti. Il rap, è arcinoto, nasce nei suburbi neri delle megalopoli statunitensi come forma di protesta e di rifiuto di tutto ciò che ha a che fare col mondo borghese e perbenista degli americani “WASP”, acronimo che sta per “bianco, anglo-sassone e protestante”. Dunque i rapper si propongono come opposti a quel mondo, di cui rigettano ogni canone e valore (salvo il gusto per l’accumulo e l’ostentazione, anche cafona, di simboli di ricchezza), a partire dai canoni estetici, fino ai valori morali, civili e sociali. Un rifiuto comprensibile, in quei suburbi, dove quei canoni e valori “civili”, espressione del mondo dei bianchi, sono visti come una forma di oppressione, anche perché spesso lo sono.

Un certo malessere e un certo disagio covano anche fra molti giovani in Europa e in Italia, dove i vecchi valori e canoni borghesi sono stati spazzati via da un progresso che, avanzando, si è scordato di portarsi appresso anche la civiltà. E così anche da noi quel malessere e quel disagio trovano sfogo in personaggi come Tony Effe, i quali forse sinceramente o forse astutamente (non sarà mai possibile saperlo) li cavalcano proponendo a quei giovani le loro tirate rap o trap, in cui come già ho rilevato di musica non ce n’è ma in compenso c’è tanta violenza, c’è tanta volgarità e c’è tanto sessismo.

Assistiamo così alla strana schizofrenia del mondo italiano della canzone (o presunta tale), che se da un lato in larga parte si è schierato coi movimenti in difesa della donna contro il maschilismo e il patriarcato, e contro la violenza che ne discende, dall’altro ora si erge come un sol uomo e, ahinoi, anche come una sola donna, al fianco di Tony Effe, biasimando che il trapper sia stato escluso dal concerto romano di fine anno per via dei suoi testi, gridando alla censura, e invocando la libertà di espressione artistica.

Non è facile decidere chi abbia ragione e chi abbia torto in questa contesa, perché il mondo dell’arte trabocca di opere violente, oscene e sessiste: basti pensare agli scritti del marchese de Sade, di Charles Bukowski o di Henry Miller e a certi dipinti, come “L’origine del mondo” di Courbet o alla classicissima scultura “Apollo e Dafne” di Bernini.

Bisogna però tener presente che mai come ora, nel nostro mondo che si autodefinisce civile, c’è stata una così ampia consapevolezza e una così pressante attenzione nei confronti del problema della violenza di genere, della mentalità patriarcale e delle disparità fra i sessi. Al giorno d’oggi, dunque, si resta a dir poco basiti in presenza di manifestazioni che, nel nome della libertà dell’arte, inneggiano a comportamenti che in linea teorica si ritengono ormai inammissibili e inaccettabili.

Bisogna poi chiedersi se si può parlare di censura quando si stigmatizza chi, col pretesto della libertà artistica, inneggia alla violenza. Che si direbbe di un artista la cui opera difendesse la pedofilia, il razzismo o la necrofilia? E non è controproducente che da un lato si modifichino addirittura i classici, perfino i cartoni animati, nel nome appunto della lotta a queste forme di pregiudizio e di violenza, e dall’altro si invochi la libertà dell’artista (o presunto tale) per consentirgli di esprimere ogni forma di oscenità?

Ai posteri l’ardua sentenza. Per quanto mi riguarda, dovendo scegliere, preferisco di gran lunga la Francia in cui si condanna l’ex marito stupratore e sfruttatore di Gisèle Pelicot, all’Italia che riempie gli stadi in cui si esibisce il trapper Tony Effe riconoscendo a lui e a quelli come lui, con mio sommo sgomento, addirittura la qualifica di “artista”.
Ho la netta sensazione che, in Italia, si sia decisamente troppo generosi nell’attribuire questa qualifica, già retaggio di donne e uomini insigni – penso, tanto per fare qualche altro nome a caso, ad Artemisia Gentileschi, Antonio Vivaldi, Grazia Deledda, Giacomo Leopardi, Mario Luzi, Ennio Morricone, Mogol, Giuseppe Verdi, Grazia Livi, Nicola Piovani – anche a personaggi il cui unico merito, si direbbe, sia di fiutare l’aria e di saper cogliere il successo dando in pasto al pubblico quel che è più facile da buttare giù e digerire.

Come se non si sapesse, poi, qual è il destino delle cose facili da buttare giù e digerire.

Giuseppe Riccardo Festa

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