
di Antonio Loiacono
C’è una parola che, accostata al 25 aprile, suona stonata come un pugno chiuso che non trova il cielo: sobrietà. È questa la linea suggerita dal governo Meloni, un invito a commemorare la Liberazione con toni dimessi, quasi sottovoce, come se ricordare la Resistenza e i suoi caduti fosse un esercizio privato, discreto, marginale. Ma la storia — quella vera, quella fatta di carne e sangue — non ha mai sussurrato.
La coincidenza con il lutto per la morte del Papa non può e non deve oscurare il significato del 25 aprile. Celebrare la Liberazione non è un gesto di rottura o di insensibilità, ma l’adempimento di un dovere civico e morale. È un atto di fedeltà verso la Repubblica nata dalla Resistenza, verso la Costituzione che ne incarna lo spirito, verso tutte quelle vite — tante delle quali mosse anche da fede cristiana — che furono spezzate per regalarci un futuro libero.
Il 25 aprile è un grido. È la voce delle donne e degli uomini che scelsero di salire in montagna, di rischiare la vita per un’idea più alta della propria esistenza. È la voce di chi fu torturato, deportato, fucilato, impiccato ai lampioni delle città occupate. È la voce di chi sognava un Paese giusto, libero, dignitoso, e per quel sogno ha pagato con tutto.
Chiedere “sobrietà” nel ricordare il sacrificio di chi ha restituito all’Italia la sua dignità è un’offesa alla memoria e un pericolo per il presente. Perché ogni volta che la Resistenza viene confinata in una cerimonia formale e spenta, ogni volta che la si svuota della sua forza politica e morale, si apre un varco. Un varco in cui può tornare a farsi strada il veleno dell’ambiguità, del revisionismo, dell’equidistanza tra chi opprimeva e chi lottava per liberare.
Il 25 aprile non appartiene a una parte, non è il giorno di una bandiera, ma di tutte le bandiere che hanno scelto la libertà. È festa di popolo, e come tale deve vibrare nelle piazze, nei cortei, nei canti che ancora oggi parlano ai giovani che non vogliono arrendersi all’apatia civile. Parlare di sobrietà significa ignorare che la libertà — la nostra libertà di oggi — non è un dato acquisito, ma una conquista da rinnovare ogni giorno, e che costa ancora fatica, vigilanza, impegno.
Ricordare la Resistenza non è nostalgia, è esercizio di cittadinanza. È educazione al coraggio. È un dovere verso chi ci ha preceduto e una responsabilità verso chi verrà dopo. E non c’è niente di “sobrio” in tutto questo. C’è passione, dolore, giustizia. C’è storia viva.
Chi ha paura della memoria, teme il futuro. E forse, sotto quella parola — sobrietà — si cela il vero timore: che il 25 aprile torni a essere, com’è giusto che sia, una giornata piena, sonora, resistente. Una giornata che non si piega al silenzio, anzi lo rompe!
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