NOTTE “PETRIPALISA” STELLATA

Ha ancora senso oggi, nel 2014, in un mondo completamente globalizzato parlare di tradizioni culturali, di amore per le proprie origini e per il proprio passato, per il dialetto che quasi ognuno di noi da bambino ha parlato e di cui si è nutrito? Riveste ancora significato, persino dalle nostre parti, persino in Calabria, dove ormai in quasi tutte le famiglie ci si esprime in italiano, e i nostri figli hanno molta più familiarità con anglicismi quali tweet, facebook, taggare, outing e altro, che con l’idioma nostro e dei nostri padri, coinvolgere le nuove generazioni nella ricerca delle proprie radici e nella riscoperta della tradizione contadina della civiltà cui apparteniamo? Pongo questi interrogativi al lettore, dopo avere trascorso insieme ad alcuni miei amici una splendida serata nel centro storico di Pietrapaola (CS), dove si è svolta la terza edizione della notte Petripalisa, festa ideata per celebrare le tradizioni del nostro piccolo borgo in Calabria, rivivere con parole ed immagini fatti e luoghi del tempo andato, per scoprire al tempo stesso quanto diversi e quanto uguali siamo rispetto a come prima eravamo. La smania di arrivare per tempo in Paese, percorrendo la strada, piena di tornanti, di 12 Km che dalla Marina porta al Borgo e che purtroppo versa nelle stesse condizioni di diversi anni fa, a parte alcuni rattoppi, mi ha persino fatto dimenticare di fare rifornimento di carburante, facendomi rischiare di rimanere a secco per strada, e di aggiungere al danno per il rischio del blocco dell’automobile, la beffa di non poter partecipare alla manifestazione. Ma arrivati finalmente in Paese (io e il mio amico Peppino), l’ansia ha ceduto il posto all’eccitazione e alla voglia di coinvolgimento e partecipazione. Prima tappa della festa, Piazza Dema. Che ho visitato l’ultima volta non ricordo quanto tempo fa, ma che è rimasta immutata e del tutto simile a come era nei decenni passati: una piazzetta di paese non troppo vasta (per quanto, come spesso capita quando si fa riferimento a reminiscenze infantili, me la ricordassi assai più grande), circondata da abitazioni di colori diversi e non sempre intonati tra loro, con le mura delle abitazioni qua è là scrostate, ma dall’aspetto antico, pulito e dignitoso: In una delle casette che circonda la piazzetta è nato l’autore del libro presentato nel corso della serata, dando alla scelta del luogo un motivo di ulteriore suggestione e nostalgia. La Piazza era addobbata a festa per l’occasione, con tanta gente del posto e dei paesi confinanti. Ho potuto incontrare molti amici e paesani, ma anche persone che vivono lontano, al Nord Italia, o addirittura all’estero: Germania, Stati Uniti, Canada, Argentina e altrove: il dentista affermato, ex compagno di scuola, che ritorna a Pietrapaola dopo 20 anni, non resistendo oltre al richiamo del paese natale, o un altro paesano immigrato in Canada da diversi decenni, che racconta con nostalgia dei tempi in cui frequentava la bottega del calzolaio Mastro Relio, che chiede con insistenza di aiutarlo a cercare i figli del suo maestro, perché ha intenzione di farsi fotografare con il camice che utilizzava per il suo apprendistato, nella bottega da lui frequentata per tanto tempo da bambino. O ancora il nostro anziano sacerdote a riposo, Don Alfonso Cosentino, coriglianese di nascita, ma pietropaolese a tutti gli effetti, per 54 anni alla guida della Curia del Paese del quale rappresenta una delle più importanti memorie storiche, e che per nulla al mondo rinuncerebbe a partecipare a eventi simili. Dopo la presentazione del libro, su cui tornerò, la festa si è trasferita in Piazzia Rio, dove del resto si è svolta anche negli altri anni: una Piazza assai più grande e spaziosa, capace di ospitare il palco da dove si è esibita la banda musicale “Nicola Gorgoglione “, lo schermo utilizzato per la proiezione da computer di immagini e filmati relativi a luoghi e personaggi e avvenimenti passati a partire dagli anni 50 del secolo scorso. E di ospitare anche gli stand gastronomici, gettonatissimi, dove ognuno di noi, senza battere ciglio, si è sobbarcato minuti e minuti di fila pur di poter gustare i deliziosi Cullurelli, dalla ricetta assolutamente identica a quella utilizzata in casa, ma inspiegabilmente assai più buoni e gustosi, o la mozzarella preparata sul posto dal massaro di Mazzica, o la strazzata, sorta di pizza condita con grasso di maiale, per stomaci forti,o altri manicaretti e ghiottonerie. Mentre la banda si esibiva intonando le note del Nabucco di Verdi, sul grande schermo, posto accanto al palco, scorrevano le immagini di piazze, strade viuzze e vicoli, di personaggi umili, ma per noi mitici, di feste e ricorrenze che dagli anni 50, in chiave purtroppo sempre minore, si sono succeduti regolarmente fino ad oggi. Tanti i ricordi e suggestioni durante la proiezione: la Timpa, cioè la roccia che sovrasta il paese e attorno a cui tutto il paese è abbarbicato, da noi pomposamente chiamato Castello, che suscita apprensione nei forestieri perché non osano pensare che cosa ne sarebbe del paese se una frammento di essa precipitasse verso il basso, ma che noi pietrapaolesi consideriamo il nostro grande e buon fratello, custode della nostra memoria, dei pregi e difetti di ognuno, che veglia e protegge i paesani, dovunque essi siano nel mondo; La processione del giorno di San Domenico, con la statua del Santo portato per le strade del paese e seguita da gente vestita del suo meglio per il giorno di festa; e poi le facce di tante persone note, personaggi per noi mitici, molti dei quali non più tra noi, ma sempre vivi nei nostri ricordi, come Ottavio Talarico che dal palco, con grande maestria ed esperienza gestiva gli incanti, cercando di far lievitare il più possibile i prezzi degli oggetti messi all’asta per cercare di raggranellare qualcosa in più per la festa. E altro e altro ancora. Mentre scorrono le immagini, insieme al mio amico ingegnere Ugo Pizzuti, facciamo a gara a chi riconosce facce non più viste da decenni, e mi monta un senso di invidia nei suoi confronti perché assai meglio di me ricorda vicoli e facce sfuocate dalla memoria e dalla qualità inevitabilmente non ottimale delle immagini. Quest’anno il piatto forte della manifestazione è stata la presentazione dell’ultimo libro di Nicola Chiarelli Ciarcellu (come ama essere chiamato): “Dizionario dialettale di Pietrapaola”. La presentazione del libro è avvenuta, come dicevo prima, in Piazza Dema, davanti a tanta gente egualmente incuriosita ed interessata, a cura dell’autore del libro, dell’editore Settimio Ferrari, del Sindaco Luciano Pugliese, del prof. Michele De Luca, esperto di dialetti calabresi, e dell’ex preside Luciano Crescente. Il volume di poco meno di 500 pagine è stato realizzato dopo anni e anni di lavoro, coinvolgendo tanta gente alla ricerca di quanto di più interessante potesse venire scritto e ricordato da Nicola Chiarelli, che in età molto giovane è emigrato in Germania, (dove,dopo oltre 50 anni dalla sua partenza, continua a vivere, e dove ha anche insegnato italiano nelle scuole tedesche), in segno di amore e attaccamento al paese che gli ha dato i natali. Il libro contiene circa 11 mila vocaboli tradotti in Italiano, ma sono tantissime le parole che non vengono semplicemente tradotte, e che invece danno spunto all’autore per ricordare modi di dire del paese, fatti e personaggi, che quel particolare lemma suggerisce. Così viene fuori un’opera che non è solamente una traduzione dal dialetto all’italiano, ma qualcosa di mezzo tra un almanacco ed una enciclopedia, che apre una finestra, uno spaccato su come eravamo sino a non moltissimi anni fa. Come faceva notare il sindaco Pugliese, Chiarelli, partendo per la Germania circa 50 anni, fa ha portato con se, e conservato per come era, quasi come se fosse custodito in uno scrigno, un dialetto assai più genuino ed autentico, rispetto a quello che viene parlato oggi, soprattutto alla Marina, dove risente inevitabilmente delle influenze linguistiche dei paesi vicini: quello in cui moltissimi di noi si riconoscono, e di cui sono gelosi custodi. Un dialetto, privo di dittonghi, e metafonesi, ma pieno di geminazioni e di “a” turbate, e di altre caratteristiche fonetiche e morfologiche, che tanto lo differenziano dai dialetti dei paesi circostanti e lo rendono immediatamente riconoscibile dai paesani anche a molto lontano di Pietrapaola. Queste caratteristiche linguistiche sono state illustrate assai bene dal prof. Michele De Luca, esperto di dialetti della Calabria, il quale ha spiegato che esse dipendono dal relativo isolamento che per tanto tempo ha caratterizzato Pietrapaola e i suoi abitanti, isolamento tale da giustificare il termine PARRATA al posto di dialetto, per indicare diversità anche assai marcati con i paesi confinanti. Molto apprezzato l’intervento del prof. Luciano Crescente, il quale ha approfittato dell’occasione per ricordare che in piazza Dema, hanno vissuto anche i suoi bisnonni oltre ai genitori di Chiarelli, che il libro racconta come eravamo, come erano i nostri genitori, e come portassero avanti, seppure in condizioni di notevoli difficoltà economiche, una cultura del lavoro, del sacrifico, del sudore, e dell’onesta, che è poi quella che ha potuto consentire, a livello nazionale, il miracolo economico e la rinascita della nostra Nazione. Oggi questa cultura rischia di essere non superata, ma sopraffatta da un’altra assai meno positiva: quella di pretendere tutto e subito, di non commisurare le richieste con le possibilità, quella di dar per scontato che ogni desiderio sia un ordine, anche se così non è. Nicola Chiarelli, infine, commosso ed emozionato per la realizzazione della sua opera e per il successo della presentazione, ha ricordato come l’amore per il dialetto travalica anche i confini della nostra nazione, sua figlia nata in Germania, lo parla correttamente, e ben lo intende la moglie tedesca. Parlare il dialetto significa rompere le barriere di una lingua libresca e imparata a scuola, significa parlare al cuore alla gente e sentirla più vicina. Poi alla fine ha deliziato l’uditorio leggendo una delle sue ultime inedite poesie: “A mmasciata”, cioè la dichiarazione d’amore di un giovane verso una giovane (senza alcuna possibilità che qualche generazione fa avvenisse il contrario) fatta non direttamente, ma attraverso i buoni uffici di terze persone: “Quannu s’e fatta zzita a mamma mia/U patre meu ere zappaturu/Avije 28 già finiti/Ntra banda avije sonatu a Calivitu/Nu jurnu, pije e sconte a Teresina/-Oji Teresì, m’he fare na mmasciata!/Sta arrivannu u tempu e mi nsurare/ a fijja ranna e Za Nunziata/comu mujjera mi vojju pijare/A mamma tannu avije 26 anni/ormai a chine avije d’aspettare?/Assai li piciaje ssu Giuvanni/L’ha dittu sini senza ci pensare”. Credo di poter dire che dono più prezioso per il paese non si potesse avere, e che tutta la popolazione di Pietrapaola saprà dimostrare per sempre riconoscenza all’autore. Torno quindi all’interrogativo di partenza: ha senso riscoprire dialetti e tradizioni, forse non più attuali? Ha sicuramente molto senso. Non tanto per la scoperta del dialetto e di quanto sia bello parlarlo: ogni paese in Calabria ha il suo dialetto, sono state pubblicati oltre 150 dizionari di dialetti calabresi, e in ogni paese ognuno ritiene che il suo sia il migliore e ride di quelli degli altri. Ma la scoperta del dialetto e della civiltà di cui è espressione, soprattutto da parte dei giovani è un passaggio storico obbligato, che dà senso e sostanza alle loro esistenza, e che rafforza le radici della civiltà contadina che ci appartiene. Personalmente, non desidererei affatto che i miei e i figli degli altri ritornassero a vivere in un contesto di indigenza, e di povertà, in un ambiente isolato o quasi dal resto del mondo, dover per spostarsi bisognava svegliarsi presto la mattina, e attendere che il motore diesel della corriera si scaldasse per mezzora prima di poter partire. E non pretenderei mai che le nuove generazioni, il cui benessere però dipende dai sacrifici delle passate, vivessero in case umide e senza servizi igienici. Senza tema di essere eccessivamente moralista in un periodo di feste e di spensieratezza diffuse, sono certo però che lo spirito di sacrificio e di abnegazione, e di lavoro estenuante per assicurare a figli e nipoti benessere e comodità vada riscoperto e apprezzato. E a questo proposito mi piace citare Aleksandr Isaevi? Solženicyn che, di ritorno in Russia dopo l’esilio forzato in USA, diceva che è sventurato quel paese che non ha memoria di sé, o per stare più vicino ai giovani mi piace ricordare le parole di Roberto Baggio, grande campione, e talento indiscusso, il quale diceva che senza sacrifici e abnegazione non si arriva da alcuna parte. Ma vedo che molti giovani oggi ne sono consapevoli, e questo mi riempie di fiducia e orgoglio. Un saluto ad amici e paesani. Angelo Mingrone.

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