Silvia o Aisha? Anche se proviamo disagio, la questione riguarda solo lei.

Silvia, lo ammetto, mi ha spiazzato: ero abituato alle foto in cui indossava jeans e maglietta, e vederla insaccata in quel – per me – orribile e informe costume islamico, con la testa rinchiusa in un velo che liberava solo l’ovale del viso, ha spiazzato me come ha spiazzato un po’ tutti: sarebbe ipocrita e bugiardo negarlo.

Detto questo, però, visto che la destra politica sulla sua conversione ci si è gettata a capofitto, felice di poterla insultare e aggredire, qualche riflessione mi sembra d’obbligo (Sì, ho scritto destra, non centro-destra: in Italia un centro-destra, da quando è  scomparso il PLI di Malagodi, non esiste più).

Prima riflessione: Silvia Romano, quale che sia la religione che professa, è o no una cittadina italiana? E in quanto cittadina italiana, è tutelata o no dal quell’articolo della Costituzione che dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua di religione (ecc.)”? Se la risposta è sì allora la discussione dovrebbe fermarsi qui.

Seconda riflessione: le destre avrebbero sollevato lo stesso polverone se, restando immutate tutte le altre variabili, al posto di Silvia ci fosse stato un Silvio? Il cambio di religione di un maschio avrebbe, cioè, prodotto le stesse reazione di scandalo, fastidio e irritazione, fino all’accusa di tradimento lanciata da “Il Giornale”?

Terza riflessione: quali sono le vere motivazioni di questa conversione? Silvia ci tiene a dire e ribadire che si è trattato di una sua libera scelta, e fino a prova del contrario dobbiamo credere che sia vero, o quantomeno che nel dirlo lei sia in buona fede. Se vero è, allora nessuno ha il diritto di criticarla perché se un cittadino italiano vuole farsi cattolico, buddista, islamico, ebraico, animista, pastafariano o ateo, a norma del già citato articolo della Costituzione sono affari esclusivamente suoi.

È però legittimo il dubbio, date le circostanze della sua conversione, che durante quest’anno e mezzo Silvia – giovane, inesperta, scossa, terrorizzata, straniata – sia stata vittima della “sindrome di Stoccolma” od oggetto di una pressione psicologica, magari astuta e raffinata, tale da plagiarla fino a indurla a questo passo. In questo caso le destre, invece di ringhiare e mordere, dovrebbero rispettosamente tacere e aspettare: aspettare che, tornata alla normalità del suo mondo, magari Silvia ritrovi l’equilibrio eventualmente sottrattole dai suoi carcerieri e si sbarazzi dei sacchi – esteriore ed interiore – nei quali è stata infilata.

Una quarta, ed ultima riflessione, mi induce a chiedermi con quali criteri certe ONG selezionano il personale che inviano nelle zone più disagiate e pericolose del mondo. Silvia è laureata, certamente, ed era (forse ancora è) animata da un grande entusiasmo e un prorompente quanto ammirevole desiderio di aiutare gli ultimi della terra. Ma sono sufficienti, in contesti del genere, una laurea e tanto entusiasmo, soprattutto quando si è giovani e inesperti? Non sto lanciando accuse, sia chiaro; però è legittimo ritenere che un rigoroso ed estremamente selettivo esame psico-attitudinale, se non viene effettuato, sarebbe forse opportuno.

Restano in ogni caso speciose e meschine le polemiche della destra sul costo sostenuto per la liberazione di Silvia che era, è e resterà una cittadina italiana e che doverosamente le istituzioni hanno liberato da una terribile condizione di pericolo.

Dunque felicitiamoci con i nostri servizi di intelligence che hanno liberato una nostra concittadina da un’interminabile prigionia e congratuliamoci con Silvia per la ritrovata libertà fisica.

Tocca a lei, e solo a lei, con l’appoggio dei suoi familiari e con un eventuale supporto psicologico, decidere se ha perso e deve recuperare anche la libertà psicologica e spirituale.

E se uscire dal sacco di quel – per noi – orribile costume islamico.

Giuseppe Riccardo Festa

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