Il pentimento peloso degli odiatori smascherati

Le cronache raccontano, in questi giorni, di precipitose marce indietro di persone che, sui social network, si sono lasciate andare a insulti, minacce e insinuazioni, grevi e gravi, nei confronti di personaggi pubblici, dal Presidente della Repubblica a Laura Boldrini e, più di recente, alla senatrice a vita Liliana Segre.

Non manca, per quanto riguarda il Presidente Mattarella, chi protesta per l’esistenza del reato di vilipendio nei confronti del Capo dello Stato, previsto dall’art. 278 del codice penale: secondo i contestatori, questo limiterebbe la libertà di espressione dei cittadini, sancita dall’art. 21 della Costituzione. Altri protestano, per lo stesso motivo, a causa della ventilata ipotesi di imporre una qualche forma di limitazione alle esternazioni, finora prive di ogni freno e controllo, che chiunque può diffondere a suo piacimento dai social network, mentre ben diverso è il regime che riguarda la diffusione di notizie false e calunniose, o di minacce, utilizzando più tradizionali canali di comunicazione.

Alla base di questo dibattito c’è un equivoco, grosso come una casa, che consiste nell’incapacità di vedere l’abisso che separa la sacrosanta e intoccabile libertà di espressione dall’esecrabile e indecorosa licenza di insulto, minaccia e insinuazione.

Nell’equivoco cade chi è portatore di una crassa ignoranza e di un’avvilente mancanza di buona educazione, entrambe purtroppo legittimate da una classe politica che, invece di porsi ad esempio di civiltà, moderazione e stile, vellica i più bassi istinti delle masse imitandone ed esaltandone i lati peggiori.

Non faccio nomi, ma so che ognuno dei miei lettori potrà stilare un elenco di politici maleducati, violenti, incivili e ignoranti (poco conta che abbiano altisonanti titoli e lauree), che hanno fatto dell’insulto e dell’aggressione elementi permanenti della loro dialettica, così inducendo la parte meno raziocinante della popolazione a seguire il loro esempio.

Non a caso una tale Eleonora Elvira Zanrosso, inquisita per un feroce insulto al Presidente Mattarella (cito: “Ti hanno ammazzato il fratello, ca**o… non ti basta?”) , si è giustificata in questi termini (cito ancora):  “Perché l’ho fatto? Era un periodo molto caldo  in cui gli animi erano surriscaldati da alcuni parlamentari dei Cinque Stelle di cui ero simpatizzante. Mi sono lasciata contagiare stupidamente da questi fatti. Io che sono madre, nonna, amante della pittura e degli animali”.

A dispetto delle credenziali che ha avanzato (essere nonna e amare pittura e animali), questa signora ha usato, su Facebook, un linguaggio degno del peggior Vittorio Sgarbi e, quel che è peggio, ha ritenuto di giustificarsi citando comportamenti altrui e un clima, a suo dire, molto caldo. In altri termini ha ammesso di essere incapace di valutare, ragionare e giudicare con i propri mezzi mentali e di lasciarsi pertanto guidare, in perfetto stile ovino, da valutazioni, ragionamenti e giudizi altrui che acriticamente fa propri e diffonde.

Ora lei, come altri sui quali la magistratura inquirente ha puntato i riflettori, ad esempio l’odiatore palermitano Manlio Cassarà (“La mafia ha ucciso il Mattarella sbagliato”), terrorizzata dalle possibili conseguenze penali dei suoi improvvidi improperi, si dice pentita, implora di poter chiedere scusa al Presidente Mattarella e promette, scolaretta di 68 anni, di non farlo più.

Troppo comodo, signora  Eleonora Elvira Zanrosso. Lei, e gli altri come lei, invece di chiedere perdono dopo avreste dovuto comportarvi civilmente ed usare il cervello prima. Ma questo è possibile solo se civili si è e un cervello lo si ha.

Nel suo caso come in quello di Cassarà, non me ne voglia, il dubbio, signora, è più che legittimo.

Giuseppe Riccardo Festa

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