MOZART PERDONA LORO, ANCHE SE SANNO BENISSIMO QUELLO CHE FANNO (riservato agli amanti del melodramma)

Una cosa va detta come premessa fondamentale e imprescindibile: la creazione artistica deve essere libera. Dunque il pittore, lo scultore, lo scrittore, il compositore, il poeta, debbono essere padroni di esprimersi come meglio credono nell’esercizio delle rispettive arti. E lo stesso vale anche per il regista, che sia cinematografico, teatrale o d’opera.

Solo che quest’ultimo, il regista, e in particolare il regista d’opera, non è, stricto sensu, un creatore ma un interprete: e dunque si colloca, o si dovrebbe collocare, nell’alveo di coloro che si assumono la responsabilità di proporre una lettura di un’opera che non viene da loro creata ma già esiste, come fanno gli attori quando dicono i versi di un poeta, o i direttori d’orchestra, i virtuosi dei vari strumenti e i cantanti, per i quali i geni della musica hanno creato le loro opere.

Con una sostanziale differenza, però: gli altri interpreti si sforzano di avvicinarsi quanto più possibile alle intenzioni dell’autore, ciascuno ovviamente attraverso il filtro della propria sensibilità, della propria storia personale e, va da sé, della padronanza dello strumento che utilizza, che si tratti della voce, della bacchetta, del pianoforte, del violino, del violoncello o dell’oboe: Giancarlo Giannini mai si sognerebbe di modificare una sola parola de La pioggia nel pineto di d’Annunzio, Herbert von Karajan, Maurizio Pollini, Jean-Paul Tortelier o Salvatore Accardo non hanno mai alterato nemmeno una semibiscroma di un qualunque spartito.

Il regista invece, almeno da una trentina d’anni a questa parte e con crescente entusiasmo, si considera padrone e signore del melodramma, con un uso della libertà che è sfociato ormai nell’arbitrio: così Rigoletto si sposta da Mantova a Manhattan, Carmen trasloca in Messico, Nabucco diventa un leader di Hamas, Mimì, nella Bohème, da innocente ricamatrice si trasforma in una prostituta; e potrei continuare. Ma almeno, nei casi che ho elencato, pur stravolgendo la collocazione geografica e cronologica, il resto è stato rispettato.

Non così nel caso del mozartiano Flauto Magico che apre la stagione lirica dello Sferisterio di Macerata: proprio Flauto Magico, non Zauberflöte: Graham Vick, il gioviale regista dell’allestimento, ha dichiarato orgoglioso, nella conferenza di presentazione, di aver insistito perché il testo fosse interpretato in italiano, e non nell’originale tedesco.

Tutti sappiamo che Mozart ha composto musiche per libretti italiani che sono capolavori assoluti: dal giovanile Idomeneo re di Creta, su versi di Metastasio, alla trilogia su libretti di Da Ponte – Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte – fino alla tarda La Clemenza di Tito, basata su un dramma di Metastasio adattato da Caterino Mazzolà. Altre opere, invece, ha voluto comporle in tedesco: fra queste, oltre a Die Zauberflöte, Die Entführung aus dem Serail (Il Ratto nel Serraglio). Ripeto: ha voluto comporle in tedesco. Ogni lingua ha una sua musica interna. Quando componeva per un testo italiano, Mozart, che la nostra lingua la conosceva perfettamente, ne aveva in mente la musicalità, le cadenze, i ritmi; e lo stesso accadeva se sceglieva di comporre per un testo tedesco, tanto che adottava anche la forma tipicamente tedesca del Singspiel, ossia canto intervallato da momenti di recitazione: se vogliamo, l’antenato dell’operetta.

Dunque, mai come in questi casi il traduttore somiglia al traditore. Cantare un’opera in una lingua diversa da quella originale significa, semplicemente, stravolgerla. Ma Vick vuole assolutamente abbassare l’opera al livello del pubblico, presumendo evidentemente che il pubblico sia ignorante e di bocca buona e bisogna annacquargli l’arte per rendergliela più digeribile. Non ha pensato, ammesso che fosse vero, che bisognerebbe piuttosto innalzare il pubblico verso l’opera,  per evitare di creare dei pateracchi sul tipo di Troy, il filmone hollywoodiano che ha fatto carne di porco dell’Iliade di Omero.

Non basta: il sorridente Graham Vick ha deciso anche che certe parti del libretto bisognava correggerle: ha soprasseduto sulle perfidie che il libretto dice a proposito delle donne (le donne, nella sua regia, fanno peraltro un gran sfoggio di cosce e mutande) ma ha ritenuto diseducativo che Pamina, rispondendo alle insidie del perfido Monostatos, personaggio dalla pelle scura, gli dica che ha l’anima nera come la pelle: la cosa puzza di razzismo, ha deciso il regista, e il pubblico non deve essere diseducato da simili frasi. Così Monostatos è diventato bianco, ma con una maschera nera sulla faccia.

Mi chiedo cosa farebbe Vick se allestisse il verdiano Un Ballo in Maschera nel quale la maga Ulrica, nel primo atto, è definita dal Primo Giudice “dell’immondo sangue dei negri” (versione censurata) o “dell’immondo sangue dei gitani” (versione originale). E chissà cosa pensa del libro della Genesi, nella Bibbia, secondo il quale la gente di colore discende da Cam, il figlio maledetto da Noè, che stando al sacro testo si porta addosso, stampata sulla pelle, la maledizione ereditata dal loro progenitore? Correggerà anche la Bibbia? E che ne farebbe de Il Mercante di Venezia di Shakespeare, con tutto l’antisemitismo di cui trabocca?

Fossi stato al posto di Vick, invece di arrogarmi la pretesa di educare il pubblico (ma chi si crede di essere?), e di correggere il libretto, io, molto più correttamente, al massimo avrei spiegato nel testo di presentazione quali erano le circostanze culturali, sociali e psicologiche di quel tempo, avvertendo che naturalmente al giorno d’oggi quelle parti vanno considerate per quel che valgono.

La storia e i miti, e la storia dell’arte, sono infarciti di cattivi pensieri e cattivi insegnamenti. Nasconderli, o peggio censurarli, significa prendersi in giro da soli e rendere un pessimo servizio a chi studia gli uni e fruisce dell’altra. Nel ‘700, e per molti anni a seguire, il razzismo era ritenuto ovvio e naturale ed ha poi continuato a imperversare a lungo, inquinando anche il pensiero di personaggi del calibro di Bernard Shaw, Theodore Roosvelt, suo nipote Franklyn Delano, e Winston Churchill. Anche Mozart e Schickaneder, il librettista di Die Zauberflöte, erano razzisti. All’epoca era normale, come era normale per certi ceti sociali aderire alla massoneria, ispiratrice di fondo dell’opera.

Come se non bastasse, il palcoscenico traboccava di paccottiglia e di comparse inutili e vocianti, il libretto è stato stravolto, appesantito e infarcito di sermoni moraleggianti; l’allestimento, spostato nel nostro tempo, traboccava di riferimenti alla società attuale con inevitabile e straniante scucitura rispetto alla vicenda originale, ai riferimenti ad Iside e Osiride, alla magia, alle prove iniziatiche e al potere della Regina della Notte; e volgarità a go-go, con atti sessuali esplicitamente simulati sul palco e grevi riferimenti alle donne (la povera Pamina, da fanciulla innocente, è diventata una lussuriosa adescatrice), e col mostro del primo atto che è diventato una benna.

Dunque mi perdonerà Mr. Vick se lo informo che il suo non è un allestimento de Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart: è uno spettacolo di Graham Vick, infarcito di supponenti intenti pseudo educativi e moralistici (nel senso della politica, non della parità fra i sessi, visto che le donne Vick le esibisce ma non le rispetta), che usa la musica di Mozart, se ne serve per trasmettere un messaggio che appartiene soltanto a Graham Vick, e che nulla ha in comune con le intenzioni del grande compositore e del suo librettista. Vick ha usato Mozart come la ditta Chante Clair usa – e avvilisce – la musica di Khachaturian per fare pubblicità ai suoi saponi.

Il punto di vista che esprimo non è solo mio ma appartiene anche, e soprattutto, a maestri del calibro di Riccardo Muti e del compianto Claudio Abbado, i quali non hanno mai perso l’occasione di rammentare che il melodramma è prima di tutto musica: invece di abbandonarsi alle fantasie più o meno rivoluzionarie e innovative che guizzano nella loro mente e di mettere il proprio ego in primo piano, i registi dovrebbero avere il buon gusto di ricordarsene. Dovrebbero andare, col cappello in mano, dal direttore d’orchestra e rappresentare a lui i loro progetti; e a lui dovrebbe spettare l’ultima parola sull’ammissibilità di un allestimento.

Non sono stato il solo a storcere il naso, tutt’altro: il pubblico – era quello delle grandi occasioni, della serata di apertura – ha sopportato fino alla fine, punteggiando con tiepidi applausi di pura cortesia le parti più gradevoli dello spettacolo, che sono sopravvissute a dispetto di Vick in grazia della musica comunque sublime di Mozart (le arie di Papageno, in particolare, e quelle della Regina della Notte), ma si è scatenato in un subisso di fischi, di boo, di grida di “buffoni” e di “vergogna” dopo che, per colmare la misura del cattivo gusto, sull’aria del finale le comparse si sono messe a ballare con movimenti da disco-dance e, prima ancora che la musica terminasse, dall’alto del bel muro dello Sferisterio sono partiti anche, fragorosi, i fuochi d’artificio.

Ma sono pronto a scommettere che Mr. Vick scuoterà le spalle: se il pubblico non capisce il suo genio, dirà, tanto peggio per il pubblico. Perché il problema, con questi signori, non è solo la loro supponenza: è anche, se non soprattutto, la loro arroganza.

Giuseppe Riccardo Festa

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