Il ritorno di Vittorio Emanuele III

Sulla scorta di quel che ho studiato della storia patria – a partire dai saggi accuratissimi e documentatissimi di Denis Mack Smith – Vittorio Emanuele III avrebbe potuto restarsene ad Alessandria d’Egitto fino alla notte dei tempi; anzi, ci avrei mandato, per fargli compagnia, anche i suoi predecessori: fuori dalla retorica che ne ha fatto i padri della Patria, infatti, i Savoia – almeno i maschi dei Savoia – si sono sempre distinti per la loro scarsa intelligenza, l’arroganza, l’ignoranza e una buona dose di ottusità, a partire dal quel Vittorio Emanuele che non si considerò mai veramente “re d’Italia”, tanto da conservare l’ordinale “secondo”, che lo confermava tale con quel nome in Piemonte, anziché assumere quello di “primo”, essendo divenuto appunto il “primo” re d’Italia, e da trattare il Sud del Paese come una colonia, scatenando la guerra civile che è passata alla storia come “banditismo” ma era in realtà la rivolta di un popolo tradito.

C’è poi stato Umberto I, quello che decorò il generale Bava Beccaris per la strage di milanesi del 1898, e infine soprattutto lui: Vittorio Emanuele III, detto “Sciaboletta” per la statura fisica non eccelsa che lo costringeva a cingersi con una sciabola fuori ordinanza, sì, ma in senso riduttivo.

Ma non è di questo che voglio parlare, perché non si giudica un uomo dalla sua statura fisica; ma da quella morale sì.

Tenuto conto del momento storico, Vittorio Emanuele III può essere perdonato per tante cose, perfino per aver permesso a Mussolini di impadronirsi del governo. Gli anni del primo dopoguerra erano tempestosi: incombeva la minaccia bolscevica, il mondo operaio era in fermento, il disordine imperversava un po’ dappertutto. Sull’onda delle notizie trucide che arrivavano dalla Russia, col malcontento dei reduci e la rabbia delle masse che montavano, la voglia di ordine prevalse su ogni altra considerazione, e così si sbagliò il re, si sbagliò il papa, si sbagliarono un po’ tutti.

Ma non si può perdonare a “Sciaboletta” la complicità con le decisioni liberticide che il regime andò attuando durante il Ventennio: dall’abolizione dei partiti all’assassinio di Matteotti all’arresto di Gramsci, dall’appoggio a Franco nella guerra civile spagnola all’alleanza con Hitler, all’orrenda campagna colonialista in Africa Orientale e in Libia, al vergognoso ingresso in guerra contro una Francia già sconfitta, alla sconsiderata dichiarazione di guerra agli Stati Uniti, alla partecipazione alla campagna di Russia, per culminare con la vergogna più infame di tutte: le leggi razziali del 1938.

È difficile pensare che il re, tutte quelle decisioni, le accettasse di malavoglia. È anzi molto più plausibile che le condividesse e le appoggiasse. Solo quando fu evidente che la guerra era persa, con uno di quei giri di valzer tipici della sua famiglia, si decise a scaricare il Duce, che in precedenza aveva addirittura decorato col Collare dell’Annunziata, la più alta onorificenza della monarchia.

Ad ogni modo, visto che sul suolo patrio è sepolto anche Mussolini, non mi scandalizzo più di tanto se anche il corpo di questo re in sedicesimo (non per la sua quota in centimetri ma per quella morale e intellettuale) viene riportato in Italia. Mi scoccia, questo sì, che il trasporto sia stato effettuato con un aereo militare: fossi stato io al governo, avrei detto ai suoi eredi che la traslazione se la sarebbero dovuta pagare loro; ma comunque non mi sarei opposto.

A lasciarmi basito è la pretesa dei suoi discendenti (il nipote che sparava ai turisti in Corsica e il pronipote che faceva la pubblicità ai sottaceti e cantava a Sanremo), gli eredi appunto, che il corpo fosse sepolto nel Pantheon, dove a mio avviso immeritatamente, ma almeno non così indegnamente, già sono sepolti suo padre e suo nonno.

Mi lascia basito, e mi conferma nella mia convinzione che bene hanno fatto i nostri padri e le nostre madri, quel benedetto 2 giugno del 1946, a decidere in maggioranza per la Repubblica che ha sicuramente mille difetti ma, se non altro, ci ha risparmiato l’imbarazzo di veder succedersi sul trono prima l’uno, e poi l’altro, dei degni eredi di sì superba altezza.

Superba altezza? Vabbè, si fa per dire.

Giuseppe Riccardo Festa

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