Il piccolo Charlie Gand è morto. Ma era davvero vivo?

La sola cosa giusta da fare sarebbe il silenzio, l’unico commento dovrebbe essere il rispetto. Rispetto per il dolore dei genitori, da una parte, e per la difficile decisione dei medici dall’altra: la decisione di far cessare un’agonia cui solo le macchine impedivano di sfociare nella conclusione che, appena qualche anno fa, sarebbe giunta molto prima: forse appena pochi giorni dopo la nascita di Charlie.

Una riflessione mi permetto però di proporla ai miei ventiquattro lettori, e riguarda i medici di quell’ospedale di Londra dove il dramma si consumava. Li immagino lacerati dai dubbi e dall’incertezza, tanto che infatti hanno ritardato il distacco di quelle macchine ed hanno acconsentito, anzi, l’hanno sollecitato, a un consulto di specialisti da tutto il mondo per accertare se effettivamente quel corpicino aveva una qualche possibilità di diventare davvero un bambino.

Alla fine, però, anche i genitori si sono arresi, e hanno capito: Charlie, in realtà – un po’ come Eluana Englaro, ricordate? – non era davvero “vivo”: il suo organismo era tenuto in funzione, certo; ma il cervello era inerte, gli occhi ciechi, gli arti immobili.

La vita è sacra, certo. Ma bisognerà pure che ci si decida a definirla, questa benedetta vita. In Gran Bretagna e altri Paesi l’hanno fatto e per questo i giudici, là, hanno decretato lo spegnimento delle macchine che tenevano in vita il piccolo Charlie. Ma in Italia siamo ancora, a questo proposito, all’anno zero. Il disegno di legge sul testamento biologico, approvato a Montecitorio, dorme al Senato e difficilmente sarà discusso prima che la legislatura finisca.

Per quanto mi riguarda, e lo dichiaro qui pubblicamente, se la mia mente si dovesse spegnere e la memoria cancellarsi, e in definitiva la mia stessa identità dissolversi nel nulla; o se, viceversa, il corpo dovesse tradire la mente e diventare una prigione senza scampo, come accade a tante vittime di malattie spietatamente invalidanti – ricordate Piergiorgio Welby? – considererei un insulto il mantenere in funzione un corpo, il mio, ormai inutile agli altri e soprattutto a sé stesso. Lo considererei un insulto proprio alla vita, che ritengo una cosa troppo nobile, e bella, e meravigliosa, per ridurla a mera e meccanica, quando non inconsapevole, sopravvivenza fisica.

Sarebbe bello che i nostri legislatori, finalmente, la piantassero di voler decidere anche per la coscienza degli altri e riconoscessero il diritto di ognuno di essere gestore della propria morte: che non è affar loro, né di questo o quel dio, ma solo di chi la vita la vive, o la subisce. Ed ha, lui solo, il diritto di decidere se continuare a viverla o a subirla: nel nome di un dio, se ci crede.

O di terminarla, dignitosamente, nel nome del proprio rispetto per sé stesso .

Giuseppe Riccardo Festa

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