Al Re Travicello piovuto ai ranocchi, mi levo il cappello e piego i ginocchi.

o bestie impotenti:
per chi non ha denti,
è fatto a pennello
un Re Travicello!
Un popolo pieno
di tante fortune,
può farne di meno
del senso comune.
Che popolo ammodo,
che Principe sodo,
che santo modello
un Re Travicello!

(Giuseppe Giusti)

 

I presidenti del Comitato di Controllo sull’Attività del Governo (CCAG), onorevoli Di Maggio e Salviettini, si recarono dal Presidente del Consiglio.
Il Presidente Salviettini, che era anche ministro dell’Interno, era insoddisfatto dell’operato del Ministro del Lavoro,  che secondo lui stava spendendo troppo per dare dei soldi gratis ai disoccupati del Sud, che invece dovrebbero andare a lavurà (espressione lombarda per dire “lavorare”).

Il Presidente Di Maggio, che era anche Ministro del Lavoro, era insoddisfatto dell’operato del Ministro dell’Interno, che stava mandando via troppi immigrati e troppo in fretta, e adesso non c’erano più schiavi da mettere al lavoro nei campi di pomodori, nei cantieri edili e nelle fonderie, che poi se aspettava un po’, fra insolazioni, cadute dalle impalcature e colate di acciaio fuso, il problema si risolveva lo stesso da solo.

«Lei è il Premier» disse Salviettini: «Dica al ministro del Lavoro che i terùn (espressione idiomatica lombarda per dire “nati a destra del Po”) bisogna farli lavurà (cfr. nota precedente), mica farli campare a sbafo a spese di quelli del Nord».

«Lei è il Premier» incalzò Di Maggio: «Dica al ministro dell’Interno che se continuerebbe a buttare in mare i negri, restassimo senza manodopera!» (Il presidente Di Maggio era famoso per l’uso disinvolto di condizionali e congiuntivi).

Il Presidente del Consiglio li guardò sconsolato e allargò le braccia: «Signori, io non sono il premier».

«Come sarebbe a dire?» protestò con voce vibrante Salviettini: «Lei è il Presidente del Consiglio!»

«Lei non sapesse quello che direbbe!» rincarò la dose Di Maggio: «Lei dovesse intervenire sui ministri competenti per risolvere i problemi! Lei fosse il Premier!».

«Signori» sospirò quello: «se io mi rivolgessi a voi come ministri, voi mi fareste notare che siete a capo del CCAG, e quindi non siete voi a rispondere a me del vostro operato, ma io che rispondo a voi del mio».

«E certo!» esclamò Salviettini: «Siamo noi che abbiamo deciso che lei doveva essere il Primo Ministro di un nuovo sistema, dove il capo del governo è scelto dal Popolo!»

«Posso farle rilevare, Ministro Salviettini, l’ossimoro che ha appena formulato?»

«E allora?» chiese Di Maggio: «Questo che cosa significasse?»

«”Ossimoro”, ministro Di Maggio, vuol dire “contraddizione in termini”»

«Che cosa significasse “ossimoro” io lo saprebbi; io volessi sapere che cosa significasse quello che ha detto prima!»

«Significa» spiegò il Presidente del Consiglio «che avendo voi due sopra la testa, io non sono premier: al massimo sono terzier. Poi lei, ministro Di Maggio, ha due supervisori aggiuntivi, se non sbaglio, che sono i capi del suo partito, i signori Gorillo e Castreggio».

«Movimento, prego!» esclamò Di Maggio con sussiego. «Noi fossimo diversi da tutti gli altri!»

«D’accordo, Movimento. Dunque, da terzier divento quintier. Poi c’è il Parlamento, che in teoria dovrebbe controllare l’operato del mio… del nostro… del vostro governo; e così divento sestier».

«Sta forse insinuando» protestò Salviettini «che lei in questo governo non conta una beata fava?»

IL Presidente del Consiglio scosse tristemente il capo: «Proprio così, caro ministro: voi mi avete messo qui ma io non ho poteri decisionali, non ho autonomia operativa, non ho libertà di azione. In teoria dovrei guidarvi ma siete voi che tenete il volante, la leva del cambio e i pedali del freno, della frizione e dell’acceleratore. In effetti mi chiedo come mi è venuto in mente di accettare questo incarico da re travicello».

Di Maggio si mise a ridere: «Lei si montasse la testa! L’Italia fosse una repubblica, mica un regno!»

Il Presidente del Consiglio sospirò: «Suppongo sia inutile illustrarle il significato del termine metafora, vero?»

Salviettini si unì alla risata di Di Maggio: «Ma quale metà fora? Se le cose andranno bene sarà merito nostro, e se andranno male sarà colpa sua! Metà fora? Noi, a lei, tutto dentro glielo abbiamo messo!»

Il Presidente del Consiglio sospirò di nuovo: «E mica a me soltanto».

E questa, amici miei è una storia disonesta.
Che puoi cambiarci i nomi, ma si sa
tanta politica ci puoi trovar.
(Stefano Rosso)

Questa storia disonesta, ovviamente, è frutto di fantasia e ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è del tutto casuale. Beh, per ora.

Giuseppe Riccardo Festa

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