Sanremo, terza serata: avanti senza scosse e senza sorprese.

Non posso certo dire che stasera il mio stato d’animo, davanti al televisore, sia dei migliori. La Francia ha richiamato il suo ambasciatore, irritata dagli improvvidi exploit di certi personaggi della politica italiana che non capiscono la differenza fra le dichiarazioni di un ministro e le sparate al bar, e un mucchio di idioti, sui social, dicono “meglio soli che male accompagnati”. Vallo a spiegare a migliaia di italiani che lavorano in Francia, ai miliardi di interscambio commerciale, alle diecine di migliaia di turisti francesi che visitano le nostre città d’arte. Toglieteci i rapporti con la Francia, e l’Italia, come dicono loro, est dans la merde.

Ma pazienza.  Certo, le coreografie che aprono la serata di Sanremo non sono fatte per migliorarmelo, lo stato d’animo. Baglioni canta “viva l’Inghilterra” e i ballerini fanno una terribile coreografia travestiti da scozzesi, con i consueti sgradevoli movimenti rigidi e meccanici. Il robotico coreografo, evidentemente, sa di geografia come il ministro Di Maio: Scozia e Inghilterra sono due nazioni diverse, e si stanno pure parecchio antipatiche. Vedrai che anche la May richiama l’ambasciatore.

Stasera ci sarà il riascolto dei dodici pezzi in concorso non riproposti ieri. Non cominciamo certo bene con Mahmoud, quello che canta “Soldi”. Già il rap, come oramai chi mi legge sa bene, mi sta sugli zebedei; vedi poi un rap arabeggiante recitato (il rap si recita, non si canta mica) in italiano. Il ragazzo, poi, ha la voce sgradevole, tutta di gola e i pochi momenti in cui accenna a cantare sono sconnessi e sguaiati. Avanti un altro.

“Nonno Hollywood”, ne ho avuto la conferma, Enrico Nigiotti l’ha dedicata al suo, di nonno. A dispetto dei tatuaggi e della ferraglia che ha alle dita, Nigiotti è un tenerone che, gli ho sentito dire, si è portato a Sanremo la mamma come portafortuna. Musica poca, nel suo pezzo, ma il testo è dolce e affettuoso. Confermo il giudizio parzialmente positivo della prima serata.

Virginia Raffaele si conferma la colonna portante dello spettacolo, interpretando da par sua un vecchio disco che salta e gira a velocità incerta. Che talento! Un applauso anche all’orchestra, che la segue nei suoi funambolismi senza fare una piega.

Pubblicità, e poi Antonello Venditti. Pensando agli occhiali da sole che, presumo, si tiene sul naso anche quando va a letto, alla faccia vagamente licantropica, all’abbronzatura inverosimile, ai capelli assurdamente neri, a quell’orrore che l’ha lanciato che è “Roma Capoccia” e soprattutto alla sua voce belante, e pensando che sicuramente duetterà con Baglioni, sono tentato di gettare la spugna e andarmene a letto in compagnia di un buon libro; poi mi ricordo che posso sempre azzerare il volume, e resisto.

La mia fosca previsione ovviamente si realizza, e i due duettano. Se sul palco salisse il boia di Londra, Baglioni duetterebbe pure con quello. Il duetto non è col boia di Londra ma l’effetto, per quanto mi riguarda, non è molto diverso: la lagna che eseguono potrebbe essere scelta dalla CIA per torturare i prigionieri di Guantanamo. I talebani confesserebbero di tutto e di più.

La giacca di Claudio Bisio, simile a quella della prima sera, è chiaramente una provocazione. Presenta – Bisio, non la giacca – Anna Tatangelo, che canta “Le nostre anime di notte”. Consapevole dei suoi mezzi, che non sono quelli vocali, Tatangelo indossa un miniabito tanto mini che non si capisce se ci è entrata e ne vuole uscire o ne è uscita e ci vuole rientrare. Da bambino avevo un’amichetta che giocava con la Barbie. Voi direte: che c’entra? È che la faccia plastificata della Tatangelo ha molto della Barbie, e con un sospiro mi ha riportato a quei beati anni infantili.

Poi entra Ultimo, il ragazzino che canta “I tuoi particolari”. Troppo facile giocare sul suo nome, dicendo che è Ultimo ma purtroppo non è l’ultimo. Solita menata di lui che è rimasto solo e rimpiange ogni cosa di lei che non c’è più. La capisco, per essersene andata, e le manifesto tutta la mia solidarietà: per stare con Ultimo ci vuole molto spirito di sopportazione. Si muove sul palco con la grazia di un orango ubriaco. Penso con orrore che se vincesse (ma non vincerà. Beh, almeno lo spero) rappresenterebbe l’Italia all’Eurofestival confermando anche là, oltre che nelle sedi politiche internazionali, quanto siamo caduti in basso.

Finalmente Bisio, giocando con Virginia Raffaele, è all’altezza della sua fama e dei suoi mezzi. Lo sketch in cui lei sbaglia e lui si innervosisce mentre insieme cantano “Ci vuole un fiore” di Sergio Endrigo è davvero simpatico e originale: sicuramente anche Endrigo ne avrebbe sorriso. Finalmente! Purtroppo, poi arriva Baglioni e fa una battutina raggelante che sciupa tutto.

Torna la gara, con Francesco Renga che esegue “Aspetto che torni”. Mentre lui canta ricevo una telefonata e debbo togliere l’audio al televisore. La sua esibizione diventa subito molto più convincente.

Irama lo segue, indossando una bellissima giacca da camera, ed esegue con sguardo allucinato “La ragazza con il cuore di latta”. Niente da aggiungere e da togliere ai commenti della prima serata, salvo l’ammirazione per i suoi orecchini, che a mia nonna sarebbero piaciuti parecchio. A me di meno, ma io in queste cose sono molto reazionario. Che noia, le giaculatorie rap che fanno a turno con i ritornelli urlati. Ritornelli che non hanno peraltro niente da spartire col coretto finto gospel che li esegue all’unisono con lui.

Ospitata di Alessandra Amoroso, con un pezzo che ha una cosa curiosa nell’arrangiamento: la chitarra iniziale esegue brevi  note sincopate che fanno pensare a un difetto in qualche altoparlante. Sulla canzone in sé nulla da dire, se non che è nello standard abituale, col solito inizio standard borbottato, seguìto da uno standard canto spiegato con voce impostata in modo standard, arrangiamento standard, ritmo standard in 4/4, inutilità standard. In sintesi, sicuramente sarà un grande successo; magari lo è già. Standard è anche lo scambio di zuccherini fra lei e Baglioni, e super standard il fatto che duettino. Eseguono “io che non vivo”, il capolavoro di Pino Donaggio. La massacrano, già a partire dall’arrangiamento “aggiornato”, dal quale è stato rimosso uno dei capisaldi dell’originale: l’incalzante ritmo terzinato. E poi Baglioni, tanto per cambiare, baglionizza tutto. Baglionizzerebbe pure il “Tantum ergo”, quel canto gregoriano che si eseguiva la domenica dopo il catechismo e che, quando finiva, mamma mia che sollievo. Lo stesso sollievo che mi dà togliere l’audio al televisore finché non finisce il massacro. Non poteva mancare la standing ovation, con tanto di occhioni lucidi della Amoroso. Per un attimo mi pare di essere in uno show della American Broadcasting Corporation, il che significa che siamo decisamente caduti molto in basso.

Pubblicità. Se le dessi retta andrei a fare la spesa al Conad su una Renault Capture, comprerei i sofficini del mostriciattolo verde e le crocchette Monge, col rischio di dare al cane i sofficini e di mangiare io le crocchette; poi comprerei un divano Poltrone&sofà ma lo macchierei tutto mangiando del cioccolato Novi. Alla fine non mi resterebbe che il suicidio.

Arriva, ospite, Ornella Vanoni, terribile a guardarsi ma godibilmente ingestibile, intelligente, autoironica e divertente. Fa la spiritosa con Virginia Raffaele e anche loro duettano. Insieme, dopo, presentano il successivo pezzo in concorso, ed è buffo che Vanoni presenti Patty Pravo: è un po’ come se il faraone Akhenaton presentasse suo figlio Tutankhamen. La differenza è che Vanoni non sbaglia una nota, mentre Pravo sembra un disco a 45 giri eseguito a 33.

Simone Cristicchi, che è sul palco subito dopo,  merita di essere ascoltato, perché anche se di musica ce n’è poca, nelle sue creazioni c’è sempre molta poesia. “Abbi cura di me”, quindi, la seguo con interesse. Se non di vincere il festival, merita sicuramente il premio Tenco e il premio della critica. Anche a lui il pubblico tributa una standing ovation, e anche lui si commuove. Per una volta sono d’accordo.

I Boomdabash eseguono “Per un milione”. Mentre a larghe falcate vagano per il palco, come d’obbligo per quelli che fanno il loro genere,  i quattro eseguono il loro sguaiato e irritante ritmo rap sudamericano; e io tolgo l’audio  e divago mentalmente sul significato del loro nome: che sia un mix di inglese e napoletano, che vuol dire “esplosione al piano di sotto”? E’ l’unica cosa, nel gruppo, che desti in me qualche curiosità.

Virginia Raffaele prova a giocare con Baglioni, ma è difficile giocare col tronco di un albero.

Subito dopo ecco arrivare, ospiti, Raf e Umberto Tozzi che faranno un tour insieme. Tozzi somiglia in modo impressionante all’ex senatore Guzzanti. Eseguono una fantasia di loro successi di cui confesso di sapere molto poco, soprattutto per quanto riguarda Raf. Strano che Raf vada a spasso con Tozzi. Mi sembrerebbe più logico che lo facesse con Nek, Neffa, Fuffi, Bubi e Fido. Scherzi a parte, Raf di sicuro sa cantare e “Gloria”, di Tozzi, si riascolta sempre con piacere. Poi, coi presentatori i due fanno un quintetto su “Gente di mare”. Un bel momento di musica leggera: se il pezzo fosse in gara, vincerebbe di sicuro.

Purtroppo poi tornano i pezzi in gara davvero, con ”Dov’è l’Italia” di Motta che, dice Virginia Raffaele presentandolo, è un lamento per la mancanza di senso civico e di umanità del nostro Paese. Sarà. Io sono d’accordo solo sul fatto che è un lamento, per non dire uno strazio.

The Zen Circus, con “L’amore è una dittatura”, parla della necessità di superare le differenze e le diffidenze: così dicono i conduttori introducendo il gruppo. Ma io continuo a sentire filastrocche rap; e qualunque cosa il gruppo dica col suo pezzo, che ad ogni modo è difficile da percepire, è comunque irritante.

Dopo un siparietto provincialotto  col comico Paolo Cevoli, al quale generosamente Bisio fa da spalla,  torna la gara con Nino D’Angelo e Livio Cori, che di nuovo cantano “Un’altra luce”, un po’ in dialetto e un po’ in lingua. Solo che non si capisce quale sia la lingua e nemmeno quale sia il dialetto. Glottologi da tutto il mondo si sono riuniti per tentare di decifrare le parole che i due farfugliano sul palco, ma finora senza successo. Si spera che Sonasega Kedici, famoso linguista inuit, possa risolvere l’enigma.

E le dodici canzoni sono infine finite. Stasera salvo solo “Nonno Hollywood” e soprattutto “Abbi cura di me”, di Cristicchi; ieri i pezzi di Arisa, “Mi sento bene” e, di Paola Turci, “L’ultimo ostacolo”.  Per quanto mi riguarda solo questi quattro pezzi, sui ventiquattro in concorso, dimostrano di essere frutto di un degno livello di ispirazione.

Per amor di cronaca e per curiosità mi dispongo a sopportare il resto dello spettacolo per vedere come voterà la giuria dei giornalisti, che ieri non mi ha convinto più di tanto. Fermo restando che comunque la stragrande maggioranza delle canzoni del festival, incluse le vincenti, di solito finisce nel più ovattato oblio, è anche vero che spesso il verdetto delle giurie è stato clamorosamente smentito dai fatti: molte ultime sono diventate successi internazionali, tipo “Il ragazzo della via Gluck”, mentre molte vincitrici non sono sopravvissute nemmeno una settimana, vedi “Ragazza del Sud” di Gilda e “Fiumi di parole” dei Jalisse.

Rovazzi! Non poteva mancare Rovazzi, che da un po’ è il prezzemolo di tutte le minestre. Forse è per questo che le luci, al suo arrivo, sono tutte verdi. Si esibisce nel solito rap, quella cosa che lo ha lanciato: “Andiamo a comandare”. Orrore, orrore. Giuro che non parlo per invidia: proprio non riesco a spiegarmi il suo devastante successo. La performance continua con toni, di nuovo, molto da avanspettacolo. Poi fa un altro rap, per la gioia dei ggggiòvani. Ma Baglioni non perde occasione, e duetta pure con lui. E poi, incredibile dictu e incredibile visu, ai due si unisce Fausto Leali, che poco prima era salito sul palco urlando e ne era stato rimosso con la forza: raptus di follia o trovata registica? Comunque mai trio fu più improbabile.

Un momento di commozione ricordando Mia Martini con Serena Rossi che la interpreta in un prossimo sceneggiato TV e canta “Almeno tu nell’universo”. Ecco una canzone veramente, veramente, veramente bella! Ma Baglioni interviene, la baglionizza e rovina tutto. Peccato, perché la Rossi è davvero brava e la canta molto bene. L’omaggio che rende a Mia Martini, e le scuse che le porge per la violenza di cui fu vittima, sa di sincerità e di verità. Ma il pubblico, stavolta, non pensa di tributare – se non a lei, a Mimì – una standing ovation.

Gradevole il monologo di Rocco Papaleo sulle grandi storie d’amore. Poi Baglioni fa Baglioni e canta “E tu”, ed io posso distrarmi pensando a quanto sia difficile dire qualcosa di originale sull’amore e come le canzoni, sia quelle di Baglioni che quelle del festival di Sanremo, fatte salve poche, occasionali e accidentali occasioni, ne siano la dimostrazione. E penso anche che in fin dei conti, con la scusa del festival, Baglioni sta facendo una grande opera di autopromozione: canta continuamente, canzoni sue e canzoni altrui, e quando canta le canzoni altrui le trasforma a tal punto da dare l’impressione che pure quelle, poverette, siano sue.

I due del prima-festival che fanno una breve passerella, ai quali ho fatto cenno all’inizio del mio primo articolo sulla kermesse, sono interessanti, spontanei e naturali come i bambini che la sera di Natale salgono sulla sedia e recitano la loro brava poesiola. Infine, la giuria giornalistica mette Cristicchi in alto, bene, D’angelo in basso e pure i Boomdabash, benone, Patti Pravo anche. Peccato per Nigiotti che va fra i mediocri.

Vado a letto, pensando malinconicamente che i miei lettori mi rimprovereranno di scrivere su Sanremo articoli ripetitivi, noiosi e monotoni.

E  avranno ragione ma non è colpa mia: chi va con lo zoppo impara a zoppicare.

Giuseppe Riccardo Festa

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